Alias Domenica

Artiste a Roma, autocoscienza di un canone parallelo

Benedetta (Cappa Marinetti), «Velocità di motoscafo»Benedetta (Cappa Marinetti), «Velocità di motoscafo», circa 1922-’24, Roma, Galleria d’Arte Moderna

A Roma, Villa Torlonia Dalle Secessioni al secondo Futurismo, spiccano Benedetta, Broglio, De Angelis e Pavlovic-Barilli. Non l’altra metà dell’Avanguardia, piuttosto le difficoltà sociali del ruolo e le complicità di genere

Pubblicato 2 mesi faEdizione del 8 settembre 2024

«Il titolo di questo libro è nato quasi subito dalla coscienza profonda di chi, avendo studiato in Italia, sa cosa il mito del genio vi rappresenta. Alla base quindi di quello che io chiamo il complesso di Michelangelo c’è tutta una cultura scolastica nutrita di luoghi comuni, c’è la storia della letteratura, dell’arte, della filosofia come s’insegna nelle nostre scuole (…). Il mito del genio si tramanda di generazione in generazione come un alibi capace di riempire tutte le deficienze, le ottusità, i vuoti dell’Italia attuale. Il mito del genio nutre l’Ossequio dell’Opinione e la misoginia della società italiana, una società di uomini e di donne bene inteso».

La lunga citazione viene da un libro uscito nel 1976 per la casa marchigiana La Nuova Foglio, una disamina titolata per l’appunto Il complesso di Michelangelo, a firma della pittrice Simona Weller, condotta attraverso materiali disparati: interviste, pagine d’impostazione saggistica, ricordi autobiografici, questionari ma anche un primo censimento delle artiste italiane del XX secolo, repertorio essenziale per ulteriori scandagli, ancora utilissimo per nuove generazioni di ricercatori e ricercatrici. Un canone ‘parallelo’, insomma, polifonico, costruito attraverso l’armamentario aggiornato degli incontri d’autocoscienza e inteso per complicare le solide idee di una certa tradizione manualistica, legata a una visione teleologica, a una rigida selezione di nomi e di date.

È dunque quanto mai giusto che la mostra aperta al Casino dei Principi di Villa Torlonia – Artiste a Roma Percorsi tra Secessione, Futurismo e Ritorno all’ordine, fino al 6 ottobre – prenda le mosse da questo testo, citato in apertura del primo saggio in catalogo, quello di Federica Pirani, fra le curatrici dell’evento. Non solo perché, nell’ormai inarrestabile anglofilia degli studi di genere, la produzione di autrici «storicizzate» sul tipo di Linda Nochlin ha messo in ombra un capitolo altrettanto pionieristico, nutritosi del fresco fermento legato ai contemporanei movimenti femministi; ma soprattutto perché Weller aveva concepito la propria indagine come volume d’accompagnamento di un’esposizione da lei stessa organizzata presso la romana Galleria Giulia, interessata per l’appunto alle presenze femminili sulla scena creativa nazionale del XX secolo.

L’appuntamento odierno si presenta quindi, da un lato, come un vero e proprio omaggio, seppur nei limiti di un arco cronologico ristretto, preso ad argomento di un percorso meno temerario (di fatto, i primi quarant’anni del Novecento, dalle Secessioni al secondo Futurismo, con un focus esclusivo sulla capitale); dall’altro, intende offrire un’inedita «visualizzazione» di quella scelta più antica, difficile da ricostruire in assenza di pagine che avessero l’ambizione di registrarla puntualmente per un pubblico postumo.

L’impresa è riuscita. Complice il progressivo approfondimento del tema, a partire dagli anni Duemila, e la messa a fuoco sempre più esatta di figure note e di personalità sconosciute, i Musei di Villa Torlonia sottopongono al visitatore una galleria ben calibrata di opere, fra tele e creazioni plastiche di dimensioni contenute (senza dimenticare una sezione fotografica consacrata a Ghitta Carell). La mostra – con alcune vette qualitative, fra cui i dipinti celebri di Benedetta ed Edita Broglio o le prove sorprendenti di Deiva De Angelis e Milena Pavlovic-Barilli (ben commentate da Giulia Tulino) – sottrae così il problema dell’impegno femminile in pittura o scultura a una prospettiva ‘avanguardista’, sottolineando piuttosto le comuni problematiche, sociali ed economiche, implicate da una vocazione siffatta. Di fronte a condotte stilistiche rivolte alle più ampie varianti diffuse nella Roma poliglotta della prima metà del secolo, ad accomunare le traiettorie delle molte personalità illustrate al Casino restano infatti faccende d’educazione, sostentamento, pubblicità e personale «decoro»; ostacoli che trovano un riflesso preciso non tanto in questioni di sguardo o in partiti estetici condivisi, quanto nella preferenza per certi generi, nel ricorso a formati ridotti, in una parola nella timidezza della proposta mercantile di cui sembrano farsi carico la maggioranza delle testimonianze esposte.

Si tratta, con ogni evidenza, del sintomo doloroso di una qualche fragilità professionale, misurata sulle dinamiche competitive del «mestiere». Al punto che risaltano, in una delle ultime stanze, i commoventi quadri «di storia» di Immacolata Zaffuto (Operai e Cantiere con figure), bozzetti per la decorazione murale – mai completata – di una sala di rappresentanza della nuova Stazione Termini. A fronte di questa «debolezza» corporativa, se paragonata al pur screziato spirito di categoria condiviso dai colleghi maschi, fungono semmai da indizi di segrete complicità o di sorellanze solidali casi come il ricorrere di Anna Banti, di parete in parete, lungo il percorso (sia in veste di soggetto ritratto che di committente o proprietaria di opere in prestito dalla Fondazione Longhi). Si intravvedono infatti, dietro a simili presenze, reti solidali, tutte al femminile, intese per il reciproco sostegno e la mutua comprensione.

Non a caso, la scrittrice, nell’immediato dopoguerra – e più esattamente nel ’47 –, avrebbe dato alle stampe la versione finale del suo romanzo Artemisia, offrendo di fatto uno specchio alle molte colleghe impegnate a sperimentarsi in difficili esistenze di donne-artiste, in contrasto con dinamiche testosteroniche e impari confronti.

Sotto a una medesima luce, pure la vetrina posta all’ingresso è un introibo particolarmente convincente: raccoglie infatti fotografie, ephemera e documenti autografi, componendo un ritratto collettivo delle presenze evocate in mostra. Sono le voci e gli sguardi delle pittrici, delle scultrici a farsi carico del racconto della loro stessa storia, secondo toni di intima confessione o di sfida deliberata: e se si tratta certo di un avvio lirico, esso si costituisce soprattutto – nella frammentarietà delle tracce – come un rimando inequivoco alla difficoltosa documentazione di tali cammini, vulnerabili perfino nell’esercizio indispensabile della memoria.

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