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Arte povera, sfida ermeneutica da discutere

Arte povera, sfida ermeneutica da discutere"Arte Povera" a Parigi, Bourse de Commerce: la sala Marisa e Mario Merz

A Parigi, Bourse de Commerce "Arte povera", a cura di Carolyn Christov-Bakargiev. L’incontro delle collezioni di François Pinault e del Castello di Rivoli. La curatrice intende «eternizzare» la poetica formulata da Celant, ma resta decisivo interrogare le condizioni iniziali delle opere, per riattivarle...

Pubblicato un giorno faEdizione del 27 ottobre 2024

Arte povera, alla Bourse de Commerce di Parigi, chiede di essere analizzata attraverso più chiavi di lettura, dalla scelta degli artisti alla collocazione nello spazio delle circa duecentocinquanta opere esposte, alle molte linee cronologiche che attraversano il percorso espositivo.

Carolyn Christov-Bakargiev ha sviluppato il suo progetto curatoriale in dialogo con le intenzioni di Pier Paolo Calzolari, Giulio Paolini, Giuseppe Penone, Michelangelo Pistoletto, Gilberto Zorio e, negli ultimi mesi prima della sua scomparsa, di Giovanni Anselmo, mentre per Alighiero Boetti, Luciano Fabro, Jannis Kounellis, Mario e Marisa Merz, Pino Pascali ed Emilio Prini è stato centrale il contributo degli Archivi e delle Fondazioni che ne conservano il lascito.

La mostra (fino al 20 gennaio) è in primo luogo un incontro di collezioni, quelle di François Pinault e del Castello di Rivoli. A unirle è la presenza di insiemi significativi di opere di Arte povera, per il Castello di Rivoli una vocazione originaria, nel legame con i protagonisti di una vicenda che ha avuto nel contesto torinese una delle sedi propulsive, per Pinault oggetto di interesse a causa di una «radicalità che continua a nutrire la creazione contemporanea», come egli stesso dichiara nell’introduzione alla mostra.

Nei passaggi iniziali del movimento, tra il 1967 e il 1972, l’aspetto collezionistico si giocava in un numero circoscritto di «chambres d’amis», quelle di chi frequentava gli studi degli artisti e alcune gallerie tra Torino, Roma e Milano, con puntate a Genova e Bologna, di chi organizzava, ancora a Torino, spazi alternativi come il Piper o il Deposito d’arte presente e seguiva gli appuntamenti estivi delle rassegne di Amalfi e Palermo, di chi scriveva sulle pagine di «Domus», «Marcatré», «B’t», «Flash Art», «Data». Si formarono così, attraverso acquisti, scambi e doni, preziosi nuclei di opere, traccia della fase germinale del movimento, in parte confluiti nelle nuove collezioni pubbliche e private costituitesi a partire dagli anni ottanta.

Giuseppe Penone, “Essere vento”, part., 2014

Risale a quel decennio la ripresa di interesse per l’Arte povera, valorizzata non tanto per il suo contributo al rinnovamento delle pratiche artistiche in senso processuale, performativo, concettuale, quanto come sigla alla quale ricondurre l’identità dell’arte italiana contemporanea. Artefice di entrambi questi passaggi è stato Germano Celant, che, dopo aver formulato nell’autunno del 1967 l’espressione eponima del movimento, cinque anni dopo ne aveva dichiarato la conclusione, sottolineando come gli artisti avessero scelto di sviluppare ciascuno la propria linea di ricerca, per poi tornare a riunirli un decennio più tardi in una serie di mostre internazionali, dall’appuntamento parigino di Identité italienne nel 1981 a quelli di Madrid (Del Arte povera a 1985) e New York (The Knot Arte povera at P.S.1) nel 1985.

La mostra alla Bourse attualizza quella politica espositiva, confermando il gruppo dei tredici artisti selezionati per le esposizioni in cui Celant, ancora nel 2011, ha suggellato il canone dell’Arte povera. Pesa anche in questo caso l’assenza di Piero Gilardi, fondamentale sia per il carattere «abitabile» dei suoi Tappeti-natura, sia per aver segnalato sulle pagine di «Flash Art», tra 1967 e 1968, la «forte, anche se inconsapevole, unità di intenti» che collegava gli artisti italiani a quelli attivi a New York, Londra, Düsseldorf e Amsterdam.

Prendendo a prestito il titolo di un’opera di Giovanni Anselmo del 1969 – Trecento milioni di anni –, per utilizzarla come esergo del catalogo, Christov-Bakargiev propone una cronologia sovraestesa del movimento, in particolare rispetto agli antecedenti storici e alla capacità di orientare ricerche e tendenze successive.

In quell’opera di Anselmo, il titolo dichiara l’età del blocco di antracite che la costituisce; allude a una temporalità concentrata, a un processo di fossilizzazione sviluppatosi nel buio che l’artista riporta letteralmente alla luce, fissando al blocco un dispositivo elettrico capace di innescare nell’osservatore un percorso mentale à rebours. La questione del tempo, inteso come fattore di sviluppo organico con cui cercare di interferire o come attivatore di trasformazioni energetiche di cui documentare i passaggi, ha occupato fin dagli inizi un posto determinante nelle pratiche di Penone e Zorio, mentre Boetti lo ha pensato in termini di scommessa, aperta alla possibilità dello scacco.

In questo progetto espositivo il tempo è declinato anche come apertura a una dimensione storicista, e in ognuna delle sezioni monografiche dislocate negli ambienti curvilinei della Bourse è presente, o in alcuni casi solo evocata, un’opera che sia stata per l’artista modello o ispirazione. Nella sala dedicata a Mario e Marisa Merz, opere tridimensionali e a parete dell’uno e dell’altra compongono un’installazione a due voci, che lungo un tragitto a spirale ruota intorno a una tavola fondo oro di Sano di Pietro. La scelta di Pistoletto è caduta sulla Flagellazione di Piero (non presente in mostra), per l’immobilità assorta dei tre personaggi in primo piano che egli ha riproposto nella Sacra conversazione del 1974, un’opera specchiante che accoglie l’immagine di un incontro tra Penone, Zorio e Anselmo.

Il desiderio di quest’ultimo di affiancare alle sue opere un «verso oltremare», un talismano in lapislazzuli capace di materializzare il riferimento cromatico evocato in tanti suoi lavori, è stato esaudito con una minuscola testa di leone risalente alla dinastia achemenide.

Se in alcuni casi la scelta è stata quella di spostare verso il presente il focus delle sale, Zorio ha invece deciso di installare al centro del suo spazio Microfoni (Le parole, le frasi, i suoni vengono amplificati e ripetuti più volte dopo qualche attimo) del 1968, portando così in primo piano gli aspetti performativi e relazionali di cui molte ricerche recenti sottolineano la centralità in ambito poverista.

Paolini ha scelto di orchestrare un confronto con la sua stessa storia, appoggiando su un cavalletto, come se fosse stato appena realizzato, il Disegno geometrico del 1960, «immagine preesistente, anonima e neutra» – così egli la definì nel 1972 – generatrice delle sue opere successive. Di fronte è collocata una sequenza di lavori realizzati tra il 1961 e il 1972, su cui volteggia

La libertà (H. R.), silhouette dell’angelo liberatore di Henri Rousseau. «A lato, poco distante – indica Paolini nel foglio di sala – Giorgio de Chirico Se ipsum (1948) sorveglia l’assieme». Lo sguardo di de Chirico, nell’autoritratto che appartiene alla collezione di Paolini, è quello di un alter ego dell’artista, impegnato a controllare distanze e relazioni tra le opere, tramutando un luogo fisico in spazio discorsivo.

Questo impianto monografico ha il suo contraltare nella rotonda centrale, in cui tutti gli artisti sono convocati insieme e dove si intersecano datazioni, materiali, riferimenti iconografici. Il modello è quello delle mostre collettive di fine anni sessanta, in cui le distanze tra le opere si riducevano e le traiettorie visive erano trascurate a favore dell’impatto di una inedita eterogeneità di materie e formati. Ma la premessa su cui poggiava quella modalità espositiva era la stretta contemporaneità delle opere, la circolarità dell’orizzonte comune in cui il lavoro degli artisti si collocava.

Christov-Bakargiev lancia una sfida ermeneutica, auspicando che si possa «interpretare e reinterpretare all’infinito l’Arte povera» sino a renderla «eterna», ma è altrettanto importante tornare a interrogare le condizioni iniziali delle opere, per riattivarne energie e tensioni, e riscoprire in ognuna «l’unicità e irripetibilità di immagine, di materiale impiegato, di situazione spaziale» – come scriveva Mario Diacono su «B’t» –, tratto originario della nuova situazione artistica intorno al 1967.

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