Voci, suoni, litanie e parole sussurrate prendono forma in una narrazione partecipata in cui la visione esce dall’oscurità. La prima Biennale delle arti islamiche dell’Arabia Saudita (fino al 23 aprile) ha quest’obiettivo: illuminare un percorso di conoscenza delle arti islamiche. Il titolo dell’edizione inaugurale – Awwal Bait («Prima Casa») – si riferisce alla Sacra Ka’bah della Mecca, direzione e destinazione di fedeli e pellegrini musulmani ed è curata da un comitato di esperti costituito dall’archeologo Saad Alrashid con un pool internazionale di studiosi (Omniya Abdel Barr, Julian Raby e Sumayya Vally), diretta da Farida Alhusseini e prodotta dalla Diriyah Biennale Foundation.

Il luogo che la ospita è di per sé significativo e di forte impatto, trattandosi di una superficie molto vasta del terminal dove transitano quotidianamente centinaia di pellegrini (Western Hajj Terminal) nell’aeroporto King Abdulaziz Airport di Jeddah, il cui pluripremiato progetto architettonico è firmato dallo studio Som (Skidmore, Owings & Merrill). Punto di partenza e di arrivo per tutti i fedeli che secondo la religione islamica devono fare almeno una volta nella vita il pellegrinaggio alla Mecca («hajj»), quinto pilastro dell’Islam, il terminal dista una trentina di chilometri dai più importanti luoghi di Jeddah deputati all’arte, tra cui l’Athr Gallery, Hafez Gallery e la Jeddah Superdome.

Solo qualche anno fa sarebbe stato impensabile anche solo accostare antichi manufatti come l’astrolabio che serviva per indicare gli orari della preghiera e la direzione della Mecca, realizzato a Isfahan intorno al 1647-48 da Muhammad Muqim Al-Yazdi per lo scià Abbas II, oppure le pagine miniate di preziosi Corani, le pietre tombali dell’antico cimitero al-Mu’alla a La Mecca o la tenda per la porta della Kaaba interamente ricamata con fili d’oro e d’argento su seta nera – oggetti che provengono dalle più importanti collezioni al mondo, tra cui la Biblioteca King Abdulaziz di Riyadh, la Moschea del Profeta a Medina, la Sacra Moschea della Mecca, il Museo della Storia delle Scienze di Oxford, il Museo di Arte Islamica di Doha, il Museo Nazionale del Sultanato dell’Oman, l’Ahmed Baba Institute di Timbuctù – con opere dal carattere secolare. Per di più incoraggiando la frequentazione di un pubblico promiscuo.

Si respira aria di cambiamento, in Arabia Saudita, dopo l’immobilità conservativa di un lunghissimo passato recente, come viene raccontato anche nella serie web Takki (visibile su Netflix), diretta tra il 2012 e il 2021 dal regista saudita Mohammad Makki. Ambientati nello storico quartiere del Balad, a Jeddah, gli episodi delle tre stagioni mettono a fuoco le contraddizioni della società saudita attraverso lo sguardo di giovani protagonisti, coinvolti direttamente in questa trasformazione epocale: permesso alle donne di guidare, apertura dei cinema, sviluppo dell’industria turistico-culturale (parte dell’ambizioso programma Vision 2030). In più di una puntata di Takki si parla proprio di arte contemporanea con scene girate persino alla Biennale di Venezia nel 2013, in occasione della mostra collaterale Rhizoma (Generation in Waiting) organizzata da Edge of Arabia e all’Athar Gallery quando, durante un’inaugurazione, viene inquadrata l’iconica opera Yellow Cow Cheese (2010) di Ahmed Mater, uno dei più influenti artisti del paese.

Joe Namy, Cosmic Breath – I Biennale delle Arti Islamiche, Jeddah (ph Manuela De Leonardis)

Mater, insieme a Manal AlDowayan, Agnes Denes, Michael Heizer e James Turrell sarà protagonista del grande intervento permanente di land art previsto per il 2024 nella monumentale Wadi AlFann ad AlUla. Alla Biennale delle Arti Islamiche la sua opera è collocata all’ingresso del percorso espositivo che si snoda nei cinque padiglioni – da quello denominato «Adhan» (la chiamata) a «Bait» (la casa di Allah) – inclusi i due esterni («Hijrah») dedicati alla Mecca e a Medina – attraverso 300 tra opere e manufatti di cui 60 nuove opere d’arte commissionate dalla Diriyah Biennale Foundation ad artisti sauditi e internazionali.

Tra loro Moataz Nasr con l’installazione «componibile» The Seventh Wave che evoca il Monte Sinai; Reem Al Faisal con le fotografie in bianco e nero della serie The Moment of the Arrival (1994-2023), documentazione dell’arrivo dei pellegrini e, sullo stesso tema, i collage fotografici Circa Now di Rund Alarabi, mentre M’Barek Bouhchichi nel suo grande «tappeto» di argilla cotta (Kolona min Torab) punta l’attenzione sulla forza della diversità. Se, poi, in The River Remembers, Kamruzzaman Shadhin traduce nell’imponente installazione di tessitura di juta (realizzata nella tradizionale tecnica bangladese «shika») le storie di dislocazione raccontategli da sua madre, Muhannad Shono (l’artista che ha rappresentato il Regno Saudita alla Biennale di Venezia 2021) in Letters in Light, Lines we Write – riprendendo temi a lui cari – crea un’architettura di fili, acciaio e proiezione luminosa (più contenuta rispetto a quella realizzata per Noor Ryadh 2022) per parlare di perdita, scoperta, certezza e incertezza. In questo viaggio associato ai rituali, esaltato dall’allestimento studiato dallo studio Oma, la «qiblah» – la linea che connette ogni musulmano alla Kaaba – è ben delineata.

Particolarmente suggestiva, l’installazione visiva e sonora Amongst Men (2014/2023) che l’artista e attivista sudafricano Haroon Gunn-Salie ha dedicato alla figura di Abdullah Haron (1924-1969), imam e leader anti-apartheid torturato e assassinato dalla polizia nel carcere di Cape Town. Quarantamila persone parteciparono al suo funerale marciando per 10 chilometri: a loro rimandano il migliaio di cappelli «kufi» (quelli che portano i musulmani in Africa e Asia del Sud), modellati in bianco da Gunn-Salie e sospesi in alto in modo che le loro ombre circolari si concretizzino in presenze reali tra le voci di sottofondo da cui affiorano frammenti di storie, sermoni e poesie del noto poeta sudafricano James Matthews, amico di Imam Haron. Un dispositivo della memoria potente, invulnerabile.

Daniah Al Saleh parla di «Hinat», in mostra ad AlUla: un’opera tra genetica e memoria

Nella costruzione della memoria, sia personale che collettiva, quel margine di variabilità e d’incertezza per Daniah Al Saleh (Riyad 1970, vive e lavora tra Jeddah e Londra) si traduce in un quasi impercettibile movimento. Che il ricordo invada una sfera ordinaria o straordinaria non è fondamentale, piuttosto le riflessioni sono orientate verso l’esplorazione di ciò che è fragile e vulnerabile e sugli stratagemmi per far sì che la memoria venga in qualche modo preservata. Ad AlUla, durante la residenza d’artista che ha svolto nel 2022 nell’ambito del programma annuale AlUla Artist Residency (nato dalla collaborazione tra Arts AlUla e l’agenzia francese Afalula) l’artista, che si è formata in ambito pittorico conseguendo nel 2020 il MFA in Computational Arts al Goldsmiths di Londra, ha realizzato l’installazione Hinat, esposta tra le alte palme dell’oasi in occasione della collettiva Palimpsest of Time. Explorations in Creative Practice at the AlUla Artist Residency (fino al 18 marzo). Un progetto sviluppato intercettando memoria, eredità genetica, arte e tecnologia con l’obiettivo di restituire soprattutto visibilità alla presenza femminile, sia in riferimento al passato che alla contemporaneità, all’interno della storia della regione di AlUla nella regione dell’Hijaz. «Non si sa molto delle donne nabatee» – afferma Al Saleh – «ma c’è una tomba ad Hegra che è appartenuta ad una donna di nome Hinat, figlia di Wahbu, come indica l’iscrizione».

Ogni giorno, durante il periodo la residenza, l’artista ha fotografato la natura e la civiltà affascinata dalle storie «sommerse»: ad Hegra (patrimonio Unesco) ha colto le diverse sfumature del colore della pietra calcarea delle antiche tombe nabatee, fotografando sulla collina di Jabal Al-Ahmar anche la tomba 117, fatta realizzare intorno al 60-61 d.C. da Hinat «per sé, per i suoi figli e i discendenti per sempre».

Daniah Al Saleh (ph Manuela De Leonardis)

Proprio recentemente dai frammenti ossei degli scheletri rinvenuti in questa tomba, un team di ricercatori (tra loro lo scultore forense Philippe Froesch, il patologo forense Philippe Charlier ed il biologo Ramón Lopez) partendo da un’immagine generata al computer hanno creato la ricostruzione facciale di Hinat, esposta all’ingresso del sito archeologico. Daniah Al Saleh trasferendo a mano le fotografie su tela e intervenendo con la pittura e con i video manipolati con la tecnologia più avanzata ha fatto sì che i soggetti si muovessero sulla superficie bidimensionale «come figure spettrali.»

«Non sappiamo di chi siano le ossa di quegli scheletri, ma sono certa che loro vivono in noi, come se fossero antenati. L’opera ha il nome della donna nabatea che conosciamo dall’epigrafe tombale. Ho creato diverse tele con collage di immagini trasferite a mano, come pezzi cuciti insieme. Molto del mio lavoro si basa sulla memoria e su come questa sia preservata e, allo stesso, a come cambi nel tempo in base ai nostri ricordi, al tempo, all’umore. Non si tratta di still dell’immagine ma c’è un minimo movimento dato dalla proiezione del video sul collage. Sebbene in quest’opera non ci sia un glitch come in altre – tra cui Rewind, Play, Glitch che attraverso l’album di famiglia esplora i ricordi delle persone che amiamo – anche il minimo movimento indica ciò che proviamo a trattenere con la memoria, ma anche il nostro adattamento nel ricreare ciò dimentichiamo».

C’è anche Andy Warhol, da Pittsburgh ad AlUla

Le lacrime di Ann Buchanan sono qualcosa di «meraviglioso» per Andy Warhol (Pittsburgh 1928-New York 1987), quasi un atto d’insubordinazione: prima scendono dall’occhio sinistro e poi dal destro, mentre la giovane poeta beat fissa la telecamera senza mai chiudere le palpebre. Questo video-ritratto del 1964, muto e in bianco e nero, è tra i primi della serie Screen Test, un centinaio di ritratti filmati tra il ’64 e il ’68 che il maestro della Pop Art ha dedicato a personaggi noti o anonimi tutti frequentatori della Factory.

Paul America mastica un chewing-gum ma dopo un po’ sembra quasi imbarazzato; «Edie» Sedgwick musa e superstar di Andy Warhol, perfetta incarnazione della sua idea di bellezza e fascino in chiave autodistruttiva, ha lo sguardo alienato, proiettato in un altrove impenetrabile e, se Dennis Hopper recita anche quando sembra naturale, Lou Reed impiega la sua manciata di minuti per bere una Coca cola giocando con la bottiglia di vetro, lo sguardo celato dagli occhiali scuri. Nei circa 3 minuti e mezzo di riprese in cui ciascun personaggio è di fronte alla cinepresa vediamo alternarsi una gamma molteplice di espressioni: il soggetto lentamente lascia cadere la maschera.
C’è forse anche l’idea implicita, nello sguardo dell’artista, di cercare se stesso nell’altro.
Un po’ come quando si osserva la propria immagine riflessa in uno specchio.

Proprio la metafora dello specchio, che per Warhol è l’affermazione del sentirsi parte del mondo, per Patrick Moore (direttore dell’Andy Warhol Museum di Pittsburgh) è il filo conduttore della mostra FAME: Andy Warhol in AlUla da lui curata a Maraya, AlUla (fino al 16 maggio). Una collaborazione tra il museo statunitense e Arts AlUla nell’ambito dell’annuale festival Arts AlUla, ambizioso progetto diretto da Nora Aldabal e sostenuto dalla Royal Commission for AlUla (presidente per la Public Art Expert Panel è Iwona Blazwick per vent’anni direttrice della Whitechapel Gallery di Londra) che mira a trasformare quest’antichissima area geografica dell’Arabia Saudita in un museo all’aria aperta, creando un dialogo tra le testimonianze delle antiche civiltà nabatea, dadanita e lihyanita con una visione artistica contemporanea declinata nei suoi diversi linguaggi e mezzi espressivi. Per la prima volta, nel regno saudita viene dedicata una mostra a questo geniale interprete del ’900: Warhol aveva esposto nella penisola arabica solo nella personale del 1977 alla Dhaiat Abdullah Al Salem Gallery in Kuwait.

Proprio la memoria di quella mostra, attraverso un’elaborazione dei documenti d’archivio della galleria che gioca sull’ambiguità realtà/finzione è stata fonte d’ispirazione per l’artista libanese Raed Yassin, autore nel 2018 del progetto Warhol of Arabia per la Sharjah Art Foundation. «Vogliamo essere tutti riconosciuti, essere visti; nel mondo di Warhol ci sono star ma anche persone che egli trasformò in star, come nei ritratti filmati di Screen Test», afferma Patrick Moore.

Tredici ritratti di quella serie, proiettati su grandi schermi e accompagnati dalle musiche dei musicisti Dean Wareham & Britta Phillips (i brani dell’album 13 Most Beautiful: Songs for Andy Warhol’s Screen Tests sono stati suonati dal vivo dalla band in occasione dell’opening della mostra), segnano l’inizio del percorso espositivo all’interno dello stupefacente edificio specchiato di Maraya che si conclude, per rimanere in tema, con l’installazione Silver Clouds. Tra le opere più iconiche sono esposte Jackie (1964), Liz (1964), Marlon (1966), Muhammad Ali (1978), Judy Garland (1979 ca.), Dolly Parton (1985) – personaggi che hanno in comune la bellezza, la notorietà e una certa dose di tragicità – scelte per sottolineare sia l’importanza del processo artistico sperimentale di Warhol che il suo mondo fatto di ossessioni, relazioni e amicizie. Ci sono anche una sua parrucca, una serie di polaroid e foto d’epoca autografate da dive e divi del cinema che l’artista collezionava da ragazzo, nel tentativo di crearsi un mondo alternativo, meno banale di quello che viveva nella quotidianità di Pittsburgh.

Immagini che sono state di grande influenza nel definire il suo mondo creativo. «Warhol ha creato un diverso modo di vedere», afferma il curatore. A cominciare dalla propria immagine – Self Portrait (1986) – in cui non c’è più traccia del ragazzo timido della provincia americana, «nel camouflage del volto riconosciamo la celebrità ma anche l’enigma».