A chi stanco del viaggio sulla rotta Parigi-Italia e magari reduce dalla sovraffollata, soverchiante e pretestuosa mostra Monet – Mitchell (dialoghi, diciamo, a feeling) organizzata con eccellente senso del marketing dalla Fondation Vuitton, noi avremmo vivamente consigliato per riprendersi da stanchezza e delusione una sosta a Basilea e la visita nel suo Kunstmuseum dell’esposizione Zerrissene Moderne, Modernità lacerata. Archiviata la mostra (19 febbraio) ci rimane comunque il ben documentato catalogo a conservarne il ricordo, a lasciare traccia dell’intelligente taglio dato alla rassegna, per cui arte, storia, politica realizzano un intreccio appassionante.

Il fatto da cui hanno preso le mosse ricerche e mostra è l’acquisto da parte del Kunstmuseum Basel di ventuno dei tanti capolavori di «arte degenerata» messi in vendita dal regime nazista nel 1939. Motore dell’operazione fu il neo-direttore dell’istituto basilese, Georg Schmidt, che in un crescendo di trattative fece tesoro, benché ne richiese il doppio, dei cinquantamila franchi concessi dalle autorità cittadine. Il nuovo edificio del Museo d’arte di Basilea era stato inaugurato nel 1936, e fresco di nomina alla sua direzione Schmidt si trovò davanti al primo vero, impellente problema: la quasi totale mancanza di opere del periodo moderno; una lacuna alla quale avrebbe ovviato di lì a poco grazie alla sua lungimiranza, alla sua audacia e prontezza di spirito, i frutti di una chiara visione dell’arte moderna.

Ernst Barlach, «Testa del Memoriale Güstrower», Basilea, Kunstmuseum

Ma raccontiamo la vicenda. Nel 1937 il regime nazista decise di confiscare dai musei tedeschi tutte quelle opere declassate a entartete Kunst, arte degenerata, ossia quell’arte che andava contro gli eletti principi di «moralità» e «bellezza» e che in sostanza non era altro che un sottoprodotto ebraico e comunista, in palese contrasto con l’idea di arte tedesca. Si stima che vennero bollate come degenerate circa ventunomila opere. Non solo tedesche, ma pure i Gauguin, Picasso, Derain, Matisse, de Vlaminck, Chagall (ovviamente) appartenenti alle collezioni tedesche. Regime allergico a ogni declinazione del Moderno, al bando finì proprio di tutto: dalla crudissima narrazione della realtà di Otto Dix alla trasognata pittura di Georg Schrimpf o alle malinconiche figure di Lehmbruck, dall’espressionismo di Corinth alle sintesi formali di Schlemmer.

E proprio nel 1937 il regime decise di organizzare in parallelo due mostre, entrambe a Monaco: in una vennero accatastate le opere dei famigerati; nell’altra con il massimo splendore si inneggiò invece alla vera arte tedesca. Furono accompagnate da cataloghi; illustrava la copertina dei «degenerati» una scultura dell’anarchico ebreo Otto Freundlich. Tra gli artisti banditi non pochi erano quelli già affermati. La gotica, graffiante Deposizione di Beckmann, per esempio, acquistata dallo Städel Museum di Francoforte nel 1918, sguardo a una realtà sempre più aspra e conflittuale, venne requisita nel ’33. L’artista non tardò a capire che per lui la situazione stava precipitando, ciò che lo indusse a espatriare nel ’37, precisamente il giorno seguente l’inaugurazione della Grosse deutsche Ausstellung. Sopravvisse in semiclandestinità durante la guerra ad Amsterdam e non fece più rientro in Germania. Ma tanti altri della generazione tra le due guerre – è il caso di Franz Nussbaum, Franz Frank, Anita Rée, Christoph Voll e così via – non avevano raggiunto quella notorietà che consentiva loro, malgrado le qualità promettenti, di continuare nel proprio lavoro anche all’estero. Vennero presto dimenticati e la loro opera quasi completamente dispersa. Emblematico il caso di Nussbaum. Premiato nel 1931 e avviato a una fulgida carriera, perché ebreo fuggì in Belgio. Venne tradito e quindi deportato ad Auschwitz, dove fu assassinato nel 1944.

Il direttore Georg Schmidt nel 1939

Il regime capì comunque che con le opere «degenerate» si poteva ricavare soldi. Dichiarò «vendibili all’estero» 780 dipinti e sculture, oltre a 3.500 lavori su carta di «arte degenerata» ammucchiati in un deposito di Berlino. L’«invendibile» venne bruciato il 20 marzo del ’37. Diede poi incarico a quattro mercanti d’arte di cercare possibili acquirenti. Fu uno di questi mercanti, Karl Buchholz, a mandare una lunga lista a Schmidt, mentre in contemporanea alla Galleria Fischer di Lucerna si stava organizzando un’asta con 125 capolavori di «degenerati». Ottenuto il benestare dalle autorità cittadine, Schmidt si mosse fulmineo – una corsa contro il tempo come in un degno poliziesco – acquistando otto capolavori all’asta e poi altri tredici trattando direttamente con un altro mercante, Hildebrand Gurlitt, al quale arrivò persino a scrivere: «sia generoso e ci dia il terzo Schlemmer in regalo!». Entrarono così nel museo basilese, presi all’asta lucernese, Villa R. di Klee, una Natura morta di Corinth, Ritratto dei genitori dell’artista di Dix, un Autoritratto di Modersohn-Becker, Due gatti, blu e giallo e Destino degli animali di Marc (capolavoro-icona, il secondo, che Schmidt acquisì avvedutamente poco prima dell’inizio dell’asta), Natura morta con calvario di Derain, La presa di tabacco (Rabbino) insieme a un’opera su carta di Chagall.

Da Lucerna le opere invendute vennero poi trasportate nell’atrio del Museo di Basilea, operazione grazie alla quale l’istituto riuscì a comperare altre dodici opere, tra cui capolavori come l’Ecce homo di Corinth, Innamorati nel vento di Kokoschka e «Il Nizza» a Francoforte sul Meno di Beckmann. Schmidt non riuscì invece nell’intento di tenersi anche le opere di Picasso, Ensor, Lehmbruck e soprattutto Trincea, l’apocalittica grande tela di Dix, la quale dopo tutto quel peregrinare scomparve nel nulla. L’acquisto con soli cinquantamila franchi di quei ventuno capolavori gettò, stimolando donazioni e acquisizioni, le basi per la creazione di una delle maggiori collezioni al mondo di arte moderna.

E così eccoci, passando di sala in sala o sfogliando le pagine del catalogo, a osservare le opere e i loro autori da un punto di vista inusuale, dismettendo gli abiti del connaisseur per considerarli con altri occhi; o meglio, con uno rivolto all’opera e uno rivolto al documento, catturati dall’affascinante trama cui danno vita uomini di cultura, politici, mercanti di scarsissima moralità. Un omaggio alla figura di primo piano del direttore Georg Schmidt? Un modo di riportare alla luce opere e artisti dimenticati di quella dannata generazione, come nel caso del bel ritratto di un ragazzo di strada dello scultore Christoph Voll? Un intrigante progetto perseguito meticolosamente con dossier documenti liste fotografie per far chiarezza – buona strada da seguire – sulla provenienza delle opere? O il racconto della creazione dal nulla di una delle più prestigiose collezioni pubbliche di arte moderna? Tutto questo insieme. Per una volta, e in questo singolare caso, la chiara e illuminata visione dell’arte moderna di un giovane direttore di museo si fece beffe dell’ottusità di un regime totalitario che di moderno non voleva saperne. Di propaganda, al solito, invece sì. «Bell’affare» verrebbe da dire. Le stesse parole con le quali Kavafis commentò sarcasticamente l’acquisto farsa dei marmi del Partenone, ma dette in questo caso con tutt’altro spirito.