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Art Ensemble Of Chicago, le liturgie del free jazz

Art Ensemble Of Chicago, le liturgie del free jazzL'Art Ensemble Of Chicago dal vivo a San Francisco, California, nel 1976

Anniversari/Compie mezzo secolo l’innovativa formazione di Chicago Del gruppo originario restano solo il fondatore Roscoe Mitchell e il batterista Don Moye

Pubblicato più di 5 anni faEdizione del 22 giugno 2019

Ciò che più colpisce il pubblico italiano, durante i primi concerti dell’Art Ensemble Of Chicago fra otto località dell’Emilia Romagna e l’exploit al Festival Jazz di Bergamo il 20 marzo 1974, è l’impatto scenico. Tre dei cinque musicisti esibiscono fogge africane originali e hanno il viso pesantemente truccato alla maniera di antichi rituali politeisti, gli altri due vestono casual, jeans, camiciotto o maglietta, un po’ freak giovanilista.
Già da qualche anno i musicisti free e hard bop amano presentarsi in scena indossando tuniche attillate, casacche sgargianti e copricapo etnici per ribadire la propria «discendenza» africana e il relativo credo terzomondista, ma per i cinque chicagoani l’abito non fa il monaco, bensì «è» il monaco, un «religioso» laico di un cerimoniale artistico, dove il gesto e la musica rispondono a un’idea di sacralità rivoluzionaria.
La «maschera» e la tenuta sono insomma un tutt’uno con la performance sonora che rimanda direttamente alla storia del black people. Infatti ciò che, in parallelo, sorprende il pubblico italiano è anche l’estrema nonchalance con la quale la band passa da un blues arcaico a un assolo modernissimo, da una tirata boogie a uno scoppio free, da un ritmo violento a un’atmosfera riflessiva. È pur vero che da sempre, nel jazz, la sperimentazione interagisce con il proprio passato anche remoto, ma un’alchimia sonora così potente in dialettica con il mondo contemporaneo risulterà l’elemento insolito di trasgressione, di cambiamento, di sudata freschezza e di multidisciplinare rilettura a tutt’oggi insuperato persino da esperienze pregresse (l’Arkestra di Sun Ra) o posteriori (la Shibusa Shirazu Orchestra).
LINGUAGGIO VISIVO
Da allora, ogni volta che l’Art Ensemble Of Chicago torna in Italia, si va a vedere il quintetto (talvolta allargato) non solo per constatare il rinnovarsi permanente di un repertorio sempre versatile nelle citazioni storiche, ma anche per ammirare i progressi del linguaggio visivo nell’impatto, nel look, nella disposizione dei musicisti sul palco: i tre «mascherati» – Joseph Jarman ai sax, Malachi Favors al contrabbasso e Don Moye alla batteria – accentuano l’africanismo dei propri indumenti, mentre Lester Bowie alla tromba appare in camice bianco da medico ospedaliero e solo il fondatore, il polistrumentista Roscoe Mitchell ormai non rinuncia alla cravatta e alla camicia per abiti classici dalle stoffe coloratissime (un po’ alla Ornette Coleman). Ma, da circa vent’anni in qua, ogni volta che ne viene annunciato un concerto, si va dunque a «vedere» l’Art Ensemble anche per conoscere il nuovo organico, applaudirne la longevità, nella consapevolezza che poeticamente resti forse il gruppo più coeso e omogeneo nel sound afroamericano.
INVARIATI
Nella storia del jazz infatti sono rare le band che restano unite per molto tempo senza cambiare organico: fa eccezione appunto l’Art Ensemble che in questi giorni festeggia il mezzo secolo di vita all’insegna di una musica dirompente, rivoluzionaria, immaginifica, in grado di cambiare per sempre il cammino della black culture. È impegnativo restare insieme per così tanto tempo e appunto il jazz, nel proprio iter ultracentenario, sembra manifestare l’esatto contrario: nel caso delle big band, infatti, è quasi fisiologico l’avvicendare solisti e accompagnatori, trattandosi di orchestre spesso costituite da oltre venti elementi; ma per quanto riguarda il combo o small group l’unione resta, dalle origini a oggi, qualcosa di effimero, instabile, legato insomma alla creatività o all’autorevolezza del singolo o al desiderio (e al sogno) di ogni musicista di voler cambiare, variare, sperimentare, in proprio, qualcosa di nuovo o diverso, che solo differenti partnership riescono a garantire. Se a tutto ciò via via si aggiungono la voglia di emergere dell’uno sugli altri, le rivalità o gelosie dentro o all’esterno di ciascuna formazione, il gioco dura poco, lasciando a volte disattese le speranze e le curiosità degli artisti e degli ascoltatori.
Esiste però, oltre l’Art Ensemble Of Chicago, qualche bella eccezione, meno compatta lungo l’asse spaziotemporale: il Modern Jazz Quartet con John Lewis, Milt Jackson, Percy Heath e Connie Kay dura circa un ventennio (più una reunion),il «golden quartet» di Miles Davis con Wayne Shorter, Herbie Hancock, Ron Carter, Tony Williams arriva solo a un lustro, i Weather Report resistono per circa 16 anni con i davisiani Shorter e Joe Zawinul alla front line, mentre la rhythm section muta in continuazione. Ma è solo la band creata da Roscoe Mitchell, nella storia culturale afroamericana, che esiste e resiste per un quarto di secolo, tra il 1969 e il 1994, nel classico schieramento del quintetto, raddoppiando il periodo con qualche aggiustamento da allora a oggi.
L’Art Ensemble Of Chicago, nota anche con l’acronimo AEOC, scrive una storia che si palesa in seno alla neoavanguardia chicagoana e che ora si appresta a ripercorrere e festeggiare con We Are on the Edge, un nuovo disco e una tournée mondiale, grazie ai due membri originali sopravvissuti (Mitchell e Moye) e alla collaborazione di altri tredici musicisti, tra cui la senese Silvia Bolognesi al contrabbasso e il senegalese Dudu Kouaté alle percussioni.
Il tema della longevità – diversa da quelli dei tre casi sopraccitati, fautori tutto sommato di un work in progress monolitico tra diligenti persistenze e diritture miranti, più o meno consciamente, alla coazione a ripetere, giacché in fondo quel Miles, il MJQ e i Report non avvalorano che sé stessi – va dunque meglio ribadito, non trovando ad esempio sufficiente credito nel pur esauriente libro del 2017 di Paul Steinbeck Message to Our Folks: The Art Ensemble Of Chicago, 400 fitte pagine tradotte da Giuseppe Lucchesini e curate da Claudio Sessa per Quodlibet con il titolo Grande musica nera.
La longevità del gruppo risulta, nel contesto sociopolitico, fondamentale per una sorta di vita collegiale, che rimanda al lavoro collettivo e allo sforzo comune nel proporre un inedito approccio verso ciò che i musicisti stessi chiamano The Great Black Music fin dai Sixties, coinvolgendo persino concetti, identità, valori del jazz medesimo. Fondamentale anche nelle parole degli attuali protagonisti, a cominciare da Silvia Bolognesi, con l’AEOC da due anni: «Mi raccontavano che ognuno di loro cinque, fin da subito, insegnava agli altri nuove conoscenze musicali, a partire dai propri strumenti. Passavano le ore assieme a provare e suonare. La loro vita era la musica e viceversa. Ancora oggi provano sempre qualcosa di nuovo. Non si fermano. Vanno avanti. Noi più giovani rimaniamo a bocca aperta di fronte a tanta energia e creatività».
Della stessa idea pure Dudu Kouaté, anch’egli unitosi alla band nel 2017: «Roscoe e Don continuano a fare cose molto attuali, sono gli ultimi ad andare a dormire e i primi a svegliarsi, lavorano e pensano in continuazione e questo è un bene per tutto il gruppo». E quando si chiede appunto a Moye, presente fin dal 1970, cosa significhi far parte dell’Art Ensemble Of Chicago, risponde davvero candidamente: «Un sogno, semplicemente un sogno».
FUORI I DISCHI
«Suoniamo il blues, suoniamo il jazz; musica spagnola e africana; musica classica, musica europea contemporanea, musica voodoo. Qualsiasi cosa… perché in definitiva, è ’la musica’ ciò che suoniamo. Creiamo suoni. Punto».
A ribadirlo è Jarman fin dal lontano 1969 per la rivista francese Jazz Hot. Da notare che la vicenda umana, politica, artistico-musicale dell’Art Ensemble è anzitutto una storia di dischi, in mancanza di filmati che li rappresentino storicamente: a parte il cameo nel lungometraggio Le stances à Sophie di Moshé Mizrahi (dove curano lo score, anche su disco). È dunque attraverso le numerose registrazioni del gruppo (circa 200, insieme, con altri, in proprio) che si percepisce oltre mezzo secolo di realtà afroamericana in continua metamorfosi. Ecco 16 titoli rilevanti.

Roscoe Mitchell Sextet, Sound (Delmark, 1966)
Benché esista un Before There Was Sound inciso nel 1965 in quartetto con Malachi Favors (ma rimasto inedito fino al 2011), l’avventura inizia qui con un disco profetico per l’AACM, il nuovo suono chicagoano, l’avanguardia nera e la genesi dell’Art Ensemble, visto che, oltre il leader, ci sono Malachi e Lester Bowie. Un free strutturalistico ripreso in particolare da Anthony Braxton e Muhal Richard Abrams.

Roscoe Mitchell Art Ensemble, Congliptious
(Nessa, 1968)
I venti minuti della title track vengono suonati da Mitchell, Bowie, Favors con il batterista Robert Crowder, mentre i tre restanti brani risultano altrettante solo performance del futuro nucleo originario della band che si divide 11 strumenti più decine di piccole e grandi percussioni, facendo già del polistrumentismo un segno fondante.

A Jackson In Your House (Byg, 1969)
Inciso il 25 giugno 1969 allo Studio Saravah di Parigi segna il debutto ufficiale dell’Art Ensemble Of Chicago in quartetto con l’aggiunta di Joseph Jarman ai già «collaudati» Favors, Bowie e Mitchell che ufficiosamente detiene ancora la leadership, anche solo per il fatto di firmare sei dei sette brani proposti. Seguiranno, sempre in quel 1969, altri due album (Message to Our Folks e Reese and the Smooth Ones) per la label francese, più due per Freedom (Tutankhamun e The Spiritual) e uno per Nessa (People in Sorrow) e per JMY (Eda Wobu).

Art Ensemble Of Chicago With Fontella Bass (America, 1970)
Anche in quell’anno il gruppo, in cui entra a far parte stabilmente Don Moye, registra sette album, di cui questo è il primo con un’ospite celebre, la cantante di r’n’b (celeberrima la sua Rescue Me) che s’adegua al free con melodie cantilenanti in sintonia con gli aspetti maggiormente ritualistici, lavorati su due suite concepite in modo quasi filmico.

Urban Bushmen (ECM, 1982)
Dopo il tentativo quasi etno-folk di metà Seventies con l’Atlantic (Fanfare for the Warriors e Bap-Tizum), ecco il live dall’Amerika Haus di Monaco (12 agosto 1980) che rappresenta la summa di un quindicennio di sperimentazione, nonché il terzo dei quattro capolavori per l’etichetta bavarese (Nice Guys, Full Force, The Third Decade) che, pur levigando il sound della band e addolcendolo sul piano tecnico, non riesce comunque a smussarne il costante effetto dirompente.

Art Ensemble Of Soweto (DIW, 1990)
Quinto dei nove lavori per la label giapponese (notevolissimi anche Ancient to the Future di sole cover, Dreaming Of the Masters Suite su John Coltrane, Thelonious Sphere Monk con Cecil Taylor), la band si confronta con il sudafricano Amabutho Male Chorus composto dalle voci Elliot Ngubane, Kay Ngwazene, Welcome «Max» Bhe Bhe, Zacheuus Nyoni, Joe Legwabe per un riuscito tentativo di integrazione tra culture afro.

Joseph Jarman, Don Pullen & Don Moye, The Magic Triangle (Black Saints, 1979)
Pur non potendo registrare dischi con l’intero Art Ensemble, l’etichetta milanese, votatasi al free, dà molto spazio ai singoli del gruppo, talvolta favorendo sorprendenti collaborazioni come questo trio in cui Jarman e Moye sono affiancati da Don Pullen, in quattro lunghi brani dove spicca in particolare l’interplay tra pianoforte, percussioni e ben sei tipi di fiati.

The Leaders, Out Here Like This (Black Saints, 1983)
Si tratta del secondo dei cinque album del supergruppo composto da Chico Freeman, Arthur Blythe, Cecil McBee, Kirk Lightsey, oltre Bowie e Moye: è anche una sorta di all star come fiore all’occhiello per la label meneghina. A spiccare è Zero, brano d’apertura scritto da Bowie, la cui tromba duetta magistralmente con il sax alto di Blythe.

Salutes the Chicago Blues Tradition (1993)
Creata finalmente una propria etichetta e propensi ormai a omaggiare le tradizioni afroamericane, i cinque presentano blues classicissimi da Got My Mojo Workin’ a Hoochie Coochie Man, in compagnia di veri bluesmen (Herb Walker e Chicago Beau) e di nuovi giovani musicisti post-free (Amina Claudine Myers, James Carter, Frank Lacy).

Lester Bowie Brass Fantasy, The Odyssey of Funk and Popular Music (1999)
Per cronologia, è l’ultimo e quello maggiormente «pop» fra i dieci album ufficiali della grossa formazione che il leader propone solo con trombe, tromboni, tuba e ritmica quasi a sviluppare ulteriormente il côté bandistico, ludico, ironico dell’Art Ensemble grazie a cover eterogenee da Nessun dorma a Don’t Cry for Me Argentina risolte, è il caso di dirlo, con humour e brillantezza.

Kalil El’Zabar’s Ritual Trio, Africa N’da Blues (Delmark, 2000)
Il percussionista chicagoano (al secolo Clifford Blackburn) dirige dal 1985 questa piccola formazione che, per questo nono album (dei 14 finora pubblicati) vanta ancora la formazione originaria con Favors e Ari Brown (pianoforte e sassofoni) ai quali si aggiunge come ospite il mitico Pharoah Sanders in evidenza con Miles ’Mode del suo mentore John Coltrane.

Tribute to Lester (ECM, 2003)
Registrato nel settembre 2001, oltre l’effimero ritorno alla casa tedesca, segna il sentito omaggio che i tre Mitchell, Favors, Moye – ancora senza Jarman che si prende una lunga pausa di riflessione rispetto all’intero gruppo – dedicano a Bowie da poco scomparso (8 novembre 1999), il primo ad andarsene, purtroppo seguito dagli stessi Favors (30 gennaio 2004) e Jarman (9 gennaio 2019).

Reunion (manifestodischi/ Around Jazz, 2003)
Il ritorno al completo (a parte Bowie, morto quattro anni prima) di una formazione più agguerrita che mai, tanto nel celebrare i propri trascorsi con il medley All In Together/Zero/Alternate Line/Odwalla, quanto a richiamarsi direttamente all’Africa in Wolonà e Ce soir à Bankoni scritte dal polistrumentista maliano Baba Sissoko per qualche mese integrato alla band.

Non-Cognitive Aspects of the City (Pi Recordings, 2006)
Dal vivo a New York (2004) in quintetto con le new entry Corey Wilkes (trombe) e Jaribu Shahid (bassi) al posto dei compianti Bowie e Favors, i restanti Roscoe, Joseph e Don si spostano eccezionalmente verso l’hard bop, sia pur rinvigorito da un forte impatto percussionistico, giusto per ribadire che l’AEOC di disco in disco va sempre avanti, senza mai essere uguale a sé stesso.

The Art Ensemble of Chicago And Associated Ensembles (ECM, 2018)
In vista del cinquantenario, l’etichetta bavarese lancia un cofanetto di 21 cd con quanto registrato in gruppo (o appunto con altri insiemi) direttamente collegabili a uno o più membri dal 1973 al 2015, dall’iniziale Nice Guys all’ultimo «celebrativo» Made in Chicago di Jack DeJohnette. Un libretto accluso di 300 pagine offre il punto di vista dei jazzmen Craig Taborn, Vijay Iyer, George Lewis.

We Are on the Edge (Pi Recordings, 2019)
Non solo il sottotitolo (A 50th Anniversary Celebration) ma l’intero progetto è più che eloquente: 2 dischi di 70 minuti ciascuno e una formazione allargata a big band con gli storici Mitchell e Moye affiancati da Moor Mother, Rodolfo Cordova-Lebron, Hugh Ragin, Fred Berry, Nicole Mitchell, Christina Wheeler, Jean Cook, Eddy Kwon, Tomeka Reid, Jaribu Shahid, Junius Paul, Enoch Williamson, Titos Sompa, Stephen Rush e i già citati Kouaté e Bolognesi.

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