Trame di nascita. Tra miti, filosofie, immagini e racconti (Moretti & Vitali, pp. 128, euro 14) è il titolo dell’ultimo libro di Rosella Prezzo che indaga, in una ricostruzione storico-filosofica, la perdita d’aura della nascita e della maternità. Diviso in quattro sezioni narrative è un libro importante e necessario per riflettere sullo statuto della nascita e della maternità nell’ordine simbolico che permea la nostra società, in un momento di grande confusione e opposte visioni di fronte ai nuovi scenari aperti dalla riproduzione umana. Nell’avvincente ricostruzione dell’autrice, si parte dalla scena originaria, dall’incontro «mancato» di Adamo ed Eva. Mancato perché il loro incontro non darà luogo ad alcuna relazione ma, al contrario, a un solipsismo mentale che relegherà Eva nell’insignificanza, in una secondarietà senza alcuna possibilità di riscatto. Eppure, in questo racconto dell’origine tutto ci fa capire che è solo con la presenza di Eva che Adamo può parlare.

RIFLETTENDO sulle contraddizioni che attraversano i testi fondativi della nostra tradizione, Prezzo si sofferma anche sulla figura ebraica di Lilith che, a differenza di Eva, si ribella ad Adamo e, proprio per questo, diverrà figura oscura e demoniaca. Nel suo non voler stare «sotto» all’uomo, Lilith sarà identificata alla perversione stessa, a una sanguisuga delle energie sessuali maschili. Ma il cuore di tutto l’impianto argomentativo è rappresentato dalla divisione tra mortali, terrestri e immortali che fin dall’antichità segnerà l’immaginario simbolico della nostra venuta al mondo. La mancata accettazione della nostra mortalità è la cartina di tornasole del nostro modo di pensare la nascita. Se infatti qualcuno dovesse pensare che l’evento della nascita, completamente slegato dalla figura materna, sia qualcosa che fa parte solo della nostra contemporaneità, rimarrebbe deluso e stupito.

Da Atena a Dioniso, da Esculapio a Orione, da Adone a Afrodite, il sogno maschile di creazione e di gestazione, appare in tutta la sua portata. Tutte queste figure mitiche nascono, letteralmente, «senza madre». L’onnipotenza maschile sarà rafforzata da quel passaggio dal mito al logos che farà della filosofia il sapere e la conoscenza di tutte quelle essenze che stanno in alto e che sanciscono il primato della contemplazione, del sapere metafisico che nulla ha a che fare con le donne e, soprattutto, con il loro corpo. In questo modo l’autrice mette in luce quanto ci sia di arcaico nella nostra contemporaneità e ci fa riflettere sugli esiti nefasti della «rimozione» voluta e costruita per liberarsi da quell’inciampo rappresentato dal corpo materno e della nascita stessa. Una rimozione talmente radicata nel nostro modo di pensare che ha lasciato nell’impensato e nell’insensato questa esperienza cui dobbiamo la nostra stessa vita. L’intreccio che oggi vede questo antico sogno legarsi a un mercato che si è strutturato sul principio liberale della scelta dando forma e sostanza identitaria alle soggettività individualiste, non ha consentito di rivolgersi a una visione altra della nascita e della maternità ma, anzi, ne ha segnato la sua apoteosi.

PER QUANTO LA FILOSOFIA contemporanea si sia interrogata su tale questione, solo alcune filosofe del Novecento – come Hannah Arendt e Maria Zambrano, prese da esempio dall’autrice – hanno davvero ripensato, fino a riscattarla, la nascita riorientando il pensiero filosofico. Il loro è un passaggio obbligato per il taglio che hanno operato nella tradizione filosofica. A partire da un serrato confronto con Heidegger, in particolare con la sua «gettatezza» e il suo «essere per la morte», hanno ribaltato lo scenario rimettendo al giusto posto la nostra venuta al mondo intesa come inizio, come cominciamento (Arendt) e come miracolo, patimento della propria trascendenza (Zambrano), alla luce del pensiero. L’inappropriabilità della nascita, vissuta dalle donne come ciò che è più proprio e più intimo, ci restituisce alla nostra condizione di mortali, di ospiti, sempre vulnerabili e disattesi nell’attesa. Una condizione complessa segnata dalla possibilità di un’apertura originaria capace di fare spazio all’altro/a e che richiede un tipo di riconoscimento che nulla c’entra con il riconoscimento di hegeliana memoria perché fa riferimento a una dimensione poco sondata e vissuta dalla filosofia: un riconoscimento che passa attraverso l’amore e che già il filosofo Agostino aveva intravisto nel «voglio che tu sia» ripreso con più incisività da Arendt. Nonostante questo, è accaduto che tutto ciò che non è stato visto, oppure è stato visto a uso proprio o per essere svilito, oscurato, spesso incorporato, rischia la cancellazione definitiva con un utilizzo strumentale delle biotecnologie e della scissione tra procreazione e gestazione.

LA RIDUZIONE del corpo materno a funzione riproduttiva, la riduzione della nascita a produzione laboratoriale, la costruzione di una vera e propria catena di montaggio così ben rappresentata dalle fiorenti cliniche che in molte parti del mondo promettono e assicurano a chiunque la genitorialità, aprono a scenari apocalittici e surreali come quelli cui abbiamo assistito durante la pandemia da Covid e all’inizio della guerra in Ucraina. L’ipocrisia che continua a caratterizzare questo modello economico di società e che si ostina a non voler risolvere i problemi alla radice ma solo a trovare escamotage e vie d’uscita fallimentari, ha messo molte donne di fronte all’alternativa della crioconservazione degli ovociti affinché quel conflitto tra desiderio di un figlio/a e carriera non fosse più da ostacolo. Così una donna può fare carriera fino a quanto vuole e poi decidere, semmai a settant’anni, di avere un figlio. Allo stato attuale, in ogni caso, su questi temi c’è un’enorme conflittualità nel movimento delle donne che si dividono tra emancipazione, parità, differenza, intersezionalità e via discorrendo.

PER USCIRE da queste contrapposizioni, l’autrice ci chiede di approfondire e di sforzarci di pensare a partire da noi stesse affidandoci alla nostra esperienza e facendo i conti con la nostra stessa nascita. In più, ci invita a non perdere di vista come la negazione visibile e invisibile del femminile così presente nell’immaginario culturale, abbia agito anche inconsciamente nelle nostre posizioni teoriche. Infatti, non è di oggi il fatto che sulla maternità e sulla nascita le donne, lungo il corso del tempo, hanno sempre assunto posizioni contrastanti cui si è cercato di trovare una mediazione. Alcune hanno cercato di risignificare questa esperienza sganciandola dalla condanna con cui il patriarcato ha imprigionato le donne nella natura, altre hanno cercato al contrario di svincolare la donna dalla maternità nella speranza di una esternalizzazione attraverso soluzioni tecnologiche. Tutte queste posizioni portano in sé necessariamente delle contraddizioni che l’autrice mette bene in luce sapendo che oggi va tutto risignificato nell’epoca della tecnica.

SI TRATTA ALLORA di continuare a lavorare sul pensiero tenendo conto di queste enormi sfide che già sono nel nostro presente, sugli stili di vita, sui desideri, sul limite umano e post-umano per trovare una strada nuova che tenga conto dell’importanza di questo evento per la configurazione stessa della nostra umanità. Perché ne va della messa al mondo della nostra visione dell’umano. La chiusura sulle pagine di Adrienne Rich, Nato di donna, rappresenta un invito a ritornare a ripensare la maternità oltre le mistificazioni e le demistificazioni, oltre gli assetti ideologici e di mercato. Vedere la maternità per quella che è, nelle sue luci e nelle sue ombre, vederla nel suo essere un momento unitario di senso che coinvolge la fisicità, l’emotività, l’intelletto. Riconoscere che è attraverso di essa che ci riconosciamo come figli, figlie, di una stessa origine e che ogni venuta al mondo riguarda «un agire trasformativo e trasfigurante in cui si con-viene al mondo».