Arrigo Minerbi, levigato Novecento, i valori riscoperti della lingua morta
Due anni prima di morire, all’indomani della fine della Seconda guerra mondiale e della caduta del fascismo, nel maggio del 1945 Arturo Martini pubblicò lo scritto rimasto celebre Scultura lingua morta con il quale quasi rinnegava gran parte della sua produzione maggiore, legata alle commissioni ufficiali del Ventennio; o comunque non vedeva alcun futuro per quella tradizione.
Era praticamente la nascita di una formula critica, adottata ad esempio nel titolo di un’importante mostra tenutasi nel 2003 al MART di Rovereto e all’Henry Moore Institute di Leeds, con la quale però quell’eccezionale momento della plastica monumentale novecentesca, non solo italiana, acquistava una sua piena riconoscibilità, anche sul piano internazionale. Al di là di Martini, la cui grandezza non è mai stata in discussione, molte altre figure di quella stagione ancora oggi non adeguatamente note, né al grande pubblico né a volte a livello scientifico, furono lì riportate all’attenzione: si pensi non tanto ad altri protagonisti di primo piano quali Marino Marini o Giacomo Manzù, ma piuttosto a Eugenio Baroni o a Venanzio Crocetti.
Completamente assente in quella mostra del 2003 era però un altro maestro la cui sfortuna critica è perdurata fino a tempi recentissimi: Arrigo Minerbi. Il «vero ideale» tra liberty e classicismo, fino al 26 dicembre al Castello Estense della sua città natale, Ferrara, segna in questo senso un momento di svolta. Si tratta infatti di una rassegna importante, curata da Chiara Vorrasi, con un’ottantina di numeri di catalogo, tra i quali molti marmi, alcuni bronzi, e un’importante selezione degli splendidi calchi in gesso che lo stesso autore trasse dalle sue opere maggiori: donati al museo Filippo De Pisis nel 2003, sono pezzi la cui qualità rifulge anche accanto a un raro gesso preparatorio dello stesso Minerbi (con tutti i punti per il riporto sul marmo), quello dell’Angelo annunziante.
La mostra procede sostanzialmente in ordine cronologico e copre tutto l’arco della lunga carriera di Minerbi (1881-1960), ma, in rapporto anche alla dimensione degli spazi, dedica le prime sale alle realizzazioni più importanti. Si parte quindi con gli anni della formazione, tra Ferrara e Firenze, e con il contributo dato al Liberty di Galileo Chini e Leonardo Bistofi; si incontra subito, allora, uno dei pezzi forti della mostra, il calco di un’elegante stele funeraria del Cimitero Monumentale di Milano, del 1922 (già esposto dallo scultore a una mostra ferrarese del 1928). Si comprende bene come un’opera simile piacesse a Gabriele D’Annunzio, per il quale Minerbi sarebbe sempre rimasto l’artista prediletto. Il gesso è stato comprensibilmente scelto per la copertina del catalogo (pp. 199, Ferrara Arte, ingiustificato il prezzo di euro 50,00), ed è interessante osservare l’improvvisa virata dello stile del maestro negli anni successivi, dopo la sua entusiasta adesione al ‘ritorno all’ordine’ e poi al Novecento di Margherita Sarfatti
È quello, in realtà, il momento più rappresentativo della produzione di Minerbi, indagato nelle due sale successive, con un’infelice inversione tra la produzione degli anni trenta – bello il confronto con Sironi – e quella degli anni venti – il confronto ancora più illuminante con Casorati. Con quest’ultimo, peraltro, si può semmai parlare di una tangenza temporanea, poiché l’Annunziata (1920), ascetica e purissima, segna un momento particolare del percorso di Minerbi. A quello stesso momento si deve ricondurre anche il Convalescente del 1924, che tradisce pure il profondo e mai reciso legame dello scultore con quello che era stato il suo studio giovanile del Rinascimento non solo fiorentino, un capolavoro che nella mostra è un po’ incongruamente accostato a un marmo profondamente espressionista (da un modello del 1910-’11) di Adolfo Wildt , scultore col quale Minerbi aveva effettivamente anche collaborato, e dal quale aveva tratto l’amore per la levigatezza del marmo.
Ma la vera e più personale cifra espressiva di Minerbi rimase quella legata al monumentalismo degli anni trenta, più il Novecento che il Realismo magico, per intendersi. E quello che emerge dalla mostra, da una parte è la tenuta qualitativa dello scultore, che ancora nel bronzo dell’Annunciata del 1949 (suggestivamente riunita al già citato gesso dell’Angelo), un’opera un po’ fuori tempo massimo negli anni in cui quel tipo di scultura era stata ormai dichiarata morta da Martini, non scade nella stanca ripetizione di formule già collaudate; e dall’altra la quasi completa impermeabilità alla seduzione di ogni forma di Primitivismo, quasi che le giovanili esperienze di Minerbi, appunto vicino a Bistolfi e poi a Wildt, lo avessero vaccinato contro ogni possibilità di ripensamento del proprio mestiere di scultore ‘classico’.
Si sente, in mostra (e purtroppo anche nel catalogo), l’assenza di un confronto con Martini o Marini, e cioè una più ampia contestualizzazione dell’opera di Minerbi, al di là degli accostamenti peraltro assolutamente utili e puntuali con l’altro grande ferrarese della medesima stagione creativa, Achille Funi (protagonista della mostra parallela a Palazzo dei Diamanti) o anche, per la ritrattistica, con Ubaldo Oppi.
Quasi paradossalmente Minerbi avrebbe raggiunto il suo maggiore successo in chiusura di carriera, con lo scoprimento al pubblico nel 1948 della porta bronzea del Duomo di Milano – città in cui si svolse gran parte della sua carriera –, dedicata al tema dell’Editto di Costantino, impresa avviata già nel 1936 ma sospesa durante la guerra quando lo scultore, ebreo, si era rifugiato a Roma presso l’Istituto don Orione per sfuggire ai rastrellamenti: egli poi si convertì al cattolicesimo nel 1953, ricevendo il battesimo, sempre a Milano, nel 1958.
Fino alla fine dei suoi giorni gran parte dell’attività di Minerbi sarebbe stata assorbita dalla realizzazione di steli e monumenti funebri, e tutta questa produzione, allora come oggi, non è facilmente sdoganabile criticamente; e non sempre felici furono i suoi tentativi di modernizzazione. Ma se la Ladra di mele del 1949, in marmo botticino (spesso, purtroppo, impiegato da Minerbi al posto del più nobile marmo di Carrara), più una strana Eva Kant che l’Eva biblica a cui è ispirata, sembra di nuovo confermare l’epitaffio di Martini da cui si è partiti, non è difficile superare remore di carattere iconografico e apprezzare pienamente un capolavoro tardo come la Maddalena in pietra di Sarnico (1950), di nuovo una scultura funeraria, in cui un motivo antico – la figura della santa disperata – è reinterpretato, con successo, in chiave moderna.
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