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Arrabal, il rigore matematico della confusione

Arrabal, il rigore matematico della confusioneRitratto di Fernando Arrabal – foto di Francesco La Centra

Intervista Incontro con il regista, scrittore e drammaturgo tornato nella città dei Sassi quarant'anni dopo aver girato \L'albero di Guernica| con Mariangela Melato

Pubblicato circa 9 anni faEdizione del 25 luglio 2015

 

Il breve soggiorno a Matera di Fernando Arrabal (l’8 e il 9 maggio scorso) per celebrare i 40 anni del suo “L’albero di Guernica” girato tra i Sassi della città su consiglio di Pier Paolo Pasolini che aveva attraversato quegli scenari undici anni prima per il suo “Vangelo secondo Matteo” può fare da apripista per altri incontri con intellettuali ed artisti che hanno attraversato negli anni (soprattutto nel periodo in cui Matera era ancora la “vergogna nazionale”) questa città particolare della nostra Italia e del nostro Sud, agglomerato di poco meno di 60 mila abitanti da poco promosso a capitale della cultura europea del 2019. Va aggiunto però che anche incontri molto interessanti come questo possono passare come acqua fresca se la città non sa uscire dall’incapacità della sua classe dirigente complessiva di unire il locale e il globale di qualità mentre oggi si divaricano paurosamente questi due punti con le conseguenze che tutti possono immaginare. Ma il dibattito è aperto e la tendenza può essere invertita.

Fernando Arrabal, che ha collaborato con tanti autori d’avanguardia (tra cui André Breton, Andy Wharol, Tristan Tzara), è considerato uno degli artisti più importanti del Novecento (e oltre) nel campo del romanzo, della poesia, della drammaturgia, del cinema. Autore di sette film e fondatore, insieme a Topor e Jodorowsky, del “teatro panico”, Arrabal non ha “scandalizzato” Matera come fece 40 anni fa con i suoi graffiti a favore della democrazia e contro la dittatura spagnola. Troppi i cambiamenti avvenuti, troppe le rotture negative con la grande storia delle tradizioni culturali nel nostro paese: perciò, anche quando si esibisce in Piazza Vittorio Veneto nella performance della rottura rabbiosa dei suoi occhiali c’è una modesta curiosità contenuta, ma poco a fronte di ciò che suscitò 40 anni fa nei suoi tre mesi di soggiorno materano. Arrabal, tornato nella città dei Sassi su progetto di Alessandro Turco e con la collaborazione della “Lucana Film Commission”, ci tiene a raccontare per prima cosa il suo punto di vista sulla città: “Matera non è cambiata poi tanto rispetto a 40 anni fa, secondo me è più arricchita. E sono felice che sia diventata capitale europea della cultura, lo meritava da tempo”. E’ venuto a presentare agli studenti due dei suoi sette film girati nella sua vita da regista: “L’albero di Guernica” e “Jorge Luis Borges: una vita di poesia”. Non si sottrae ai selfie con i ragazzi che glielo chiedono per le piazze e le strade di Matera colpiti da quest’uomo che cammina con i doppi occhiali ma di cui ignorano tutto. Arrabal è anche molto gentile con “Il manifesto” a cui dona, dopo una nostra richiesta veicolata attraverso l’organizzatore dell’incontro materano Alessandro Turco, lo scritto qui a fianco inviato al suo ritorno in Spagna, sublime apoteosi del nulla surrealista.

Scorrono al cinema le immagini de “L’albero di Guernica”, storia dell’orgoglio repubblicano contro il fascismo franchista e primo film straniero girato tra i Sassi. Tra i suoi interpreti una suggestiva Mariangela Melato e Arrabal non perde tempo per ricordarmi che “la presenza della Melato fu straordinaria: riuscì a interpretare magnificamente quello che immaginavo quando scrissi la sceneggiatura”. Ma è la scena del dibattito in teatro a dare l’idea di trovarsi di fronte a un artista del tutto sui generis: ci sono due tavoli dove una coppia di giocatori, un uomo e una donna con il volto coperto da una maschera, giocano a scacchi: “il gioco degli scacchi è il simbolo della vita” ripeterà in continuazione Arrabal esprimendo la sua filosofia come un leit-motiv per tutto il periodo del soggiorno materano. Riportare le opinioni di Arrabal, tra il dibattito al cinema e frasi rubate durante il suo peregrinare in città, è del tutto difficile, ma tant’è. E, ovviamente, è Pasolini il primo pensiero di questo estroso artista, vincitore a Parigi, nel 1971, con “Viva la muerte”, proprio del premio “Pasolini”. E Arrabal ringraziò sempre il poeta italiano per quella che si rivelò, una felice indicazione ed intuizione: girare a Matera “L’Albero di Guernica”. “Matera è una parte della mia vita, una parte di tutto ciò che ho fatto, molto importante” mi dice Arrabal.

In un certo momento della sua vita – inizia a raccontare – Pasolini scelse Parigi, poiché aveva molti problemi con l’Italia e, da quel momento in poi, oltre a conoscerci, abbiamo avuto modo di frequentarci molto. In quel periodo, il direttore de “Le Figaro”, chiese l’espulsione di entrambi: ci considerava una vergogna per la Francia. Pasolini fu un grande scrittore, mi suggerì di andare a Matera a girare il film. E, per la verità, altrove non avevo trovato niente che fosse uguale alla Spagna mentre a Matera e nei suoi Sassi sì. Il paesaggio, il decoro, il clima: tutto tornava. C’erano molte cose simili tra me e Pasolini. Ad esempio aveva reso la lingua di Casarsa, quella friulana, una vera e propria lingua. Non mi è andato giù il modo in cui è stato trattato in Italia. In Irlanda Samuel Beckett è molto amato, per esempio. Invece Pasolini è stato più amato a Parigi che in Italia”.

Si ritorna sulla consueta e stantia accusa di blasfemia nei suoi riguardi: “Le persone che mi circondano – riprende Arrabal – sono state spesso accusate di essere dei provocatori, ma io ho conosciuto molto bene da vicino persone che non sono affatto dei provocatori: Andy Wharol, Jonesco, André Breton, Salvador Dalì, Pablo Picasso. Il film che ho girato qui a Matera non è provocatorio, perché la provocazione è inaspettata mentre qui c’è una lucida concatenazione di fatti e di scene. Lo scandalo è incontrollabile, nella nostra vita siamo pieni di scandali incontrollabili, mentre nelle mie opere c’è semmai la lucidità, l’illuminazione del surrealismo”. “Ho passato – prosegue Arrabal – tre anni con i surrealisti (in quel momento il surrealismo era l’ala culturale del troskismo), nel tempo in cui c’era una violenza molto forte dei comunisti legati a Mosca, violenza nelle conversazioni e non solo. Nel Caffè parigino dove ci incontravamo c’erano personaggi interessanti come Magritte; lì, ad esempio, ho pregato Breton di accettare Topor tra di noi. La cosa più interessante di tutti questi movimenti come il surrealismo, il dada, la patafisica, era il loro interesse estremo verso la scienza. Ed è stato proprio Breton il primo a contemplare la scienza”.

Arrabal non ha più girato film dal 1998 dopo averne fatti 7. Perché? “Ma non sono pochi – riattacca polemico – ho fatto molte cose, non ho il tempo per fare tutto ciò che vorrei. Adesso c’è in un teatro di Madrid una mia pièce. Ho interesse verso la poesia, ma, ripeto, non ho il tempo per fare tutto ciò che vorrei. Poi, tieni presente che quando fanno la lista degli uomini più influenti del mondo non c’è mai uno scrittore, un drammaturgo. Quando qualcuno, nei festival, ha detto che Arrabal è il più grande drammaturgo del mondo, molti tra i giornalisti, gli uomini di cultura e i politici presenti sono rimasti senza parole. Non ne sapevano nulla. E’ così ovunque oggi. I russi non conoscono un solo nome dei loro drammaturghi, così gli italiani. Ciò non va bene”.

Ma ritorniamo nel cinema di Matera dove qualcuno tra il pubblico azzarda un parallelo tra Dolores Ibarruri, attivista e segretaria generale del Partito Comunista Spagnolo, e Mariangela Melato protagonista de ‘L’albero di Guernica’. Arrabal è netto con la sua tagliente vena democratica ed anarchica: “No, non c’entra nulla. La Ibarruri era una stalinista e non merita il nostro rispetto”.

Ancora sui suoi film: “Ho fatto sette film e non farò più film, perché non si possono passare 5 o 6 mesi della propria vita a fare un film. Non è questione di soldi. Ora non avrei nessun problema a fare un film mentre allora ne avevo, ma, sai, hanno fatto già nove lungometraggi su di me”.

Si passa al suo rapporto col marxismo e chiedo (ovviamente invano) un ragguaglio definitivo sull’argomento: “C’è molta confusione sul marxismo, assolutamente. Dicono che alcuni miei film lo siano, ma non è così. Neanche ‘Viva la muerte’ o ‘L’albero di Guernica’ lo sono. Non sono antidemocratico, non sono un reazionario, mi dicono anarchico, forse”.

Ma non ha paura di creare eccessiva confusione? “Ah, ma io sono molto curioso e appassionato della confusione, soprattutto quello che io chiamo il rigore matematico della confusione. Lo ha fatto Salvador Dalì nel secolo scorso quando ha pagato il viaggio a cento scienziati più importanti del mondo e li ha radunati a Barcellona. Dalì era malato e non li poteva neanche incontrare. Così li ha spiati attraverso uno stratagemma. Voleva sapere se ci fossero delle leggi sul caos, ma io avrei preferito una ricerca sulle leggi della confusione, perché questa ricerca sulla confusione, di una legge matematica della confusione, ha segnato tutta la mia vita di regista, di drammaturgo, di artista”.

E adesso che non gira più un film da 17 anni? “Ma non è che se non faccio un film non faccio nulla. Ci sono dei miei testi teatrali che ho scritto ma la mia tesi è che la letteratura non interessa a nessuno. Qualcuno conosce per caso un poeta messicano?”.

Al cinema qualcuno ritorna su Pasolini e azzarda una domanda su come difendersi dal fascismo citando il poeta friulano e la sua tragica fine. Arrabal stavolta sorvola e spiazza: “Sarebbe più interessante parlare del confronto degli scrittori con il denaro. Samuel Beckett viveva in una casa di quattro metri ed era premio Nobel. Jonesco viveva in una portineria, Breton viveva in un piccolo studio di trenta metri quadrati, ed erano conosciuti. Oggi le cose importanti sono altre e non quelle della cultura. Gli scrittori cambiano il mondo, ma intanto non sono riusciti a salvare l’unità della Jugoslavia. Anch’io mi chiedo: come si fa a cambiare il mondo?”.

E si passa a Jorge Luis Borges, altro artista sublime al centro degli incontri materani. “Mi piacerebbe – riprende Fernando Arrabal – che tutti guardassero il mio film su di lui con molta attenzione, perché è un film dedicato alla statura importante di Borges. Io credo che ho incontrato il più grande genio del ventesimo e ventunesimo secolo e mi ha fatto sentire piccolo di fronte a lui. Ho conosciuto Andy Wharol, Dalì, Picasso, Breton, ma nessuno è così unico, per la sua attività e la sua intelligenza, come Borges. Sono contento se riuscirete a condividere la gioia che ho avuto io, completamente immeritata, di questo piccolo scrittore argentino. E dico piccolo perché la stampa francese, in un incontro, gli ha chiesto quale fosse il suo migliore romanzo e lui ha risposto: disgraziatamente non ho mai scritto un romanzo in tutta la mia vita. E poi gli hanno chiesto quale fosse il suo miglior testo teatrale, e la risposta fu ugualmente: signori, io non ho mai scritto un testo teatrale. Stupore e costernazione da parte della stampa francese, tutti si chiedevano cosa ha mai potuto scrivere quest’uomo per essere considerato così geniale. Con il suo senso dell’umorismo, la sua intelligenza, Borges disse: non vi preoccupate sono un piccolo autore ma il maggiore di Buenos Aires. Incantevole. In verità si tratta di un raro genio internazionale. Ed è semplicemente un orrore, frutto del conformismo di destra e di sinistra, che non gli abbiano dato il Nobel”.

Qualcuno cerca di deviare e chiedere cosa pensa di Sorrentino e della sua “Grande bellezza” e se le è piaciuto. Arrabal dice sì ma sorvola e incalza: parliamo di Borges. Si riprende quindi con il giudizio su “L’aleph”: “Se l’aleph è caos è perché Buenos Aires è una città così particolare che ha ispirato un grande della letteratura mondiale. Tutto è fonte di ispirazione per un grande creatore come lui. Potrebbe essere ispirato dal Cervantes del Don Chisciotte o dal tango delle vie popolari di Buenos Aires così come potrebbe ispirarsi a Dio e alla mistica. Oppure ispirarsi all’orrore dell’Inquisizione. Borges è un uomo del tutto libero”.

Nel suo peregrinare per Matera Arrabal mi conferma che il suo film preferito resta l’autobiografico “Viva la muerte”. In quel film c’è tutto il rapporto tragico e tormentato con la figura del padre, oltre all’inizio della sua vita da “partigiano” dell’arte trasgressiva e anticonformista. Fernando Arrabal, 83 anni, autore di infiniti testi di teatro, romanzi, poesie, pittura, teoria sul gioco degli scacchi, resta il visionario che abbiamo conosciuto tutti. Milan Kundera ha detto: “Arrabal non è un contestatore, un predicatore militante. E’ un uomo che gioca”. E infatti non a caso tocca a lui dare il là per una via proficua e gioiosa, ricca di contraddizioni estreme e vitali, perché il 2019 produca a Matera scintille e non soporifere manifestazioni che della cultura hanno soltanto il nome.

 


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