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Arnoldo e Benito, un duello editoriale

Arnoldo e Benito, un duello editorialeArnoldo Mondadori, Georges Simenon, Gino Cervi, da archivi Mondadori

Nel 1938 le autorità comunicarono ad Arnoldo Mondadori che un testo di George B. Shaw poteva essere pubblicato a patto di sostituire il voi al lei nella frase: «scusi, potrebbe […]

Pubblicato più di 5 anni faEdizione del 5 maggio 2019

Nel 1938 le autorità comunicarono ad Arnoldo Mondadori che un testo di George B. Shaw poteva essere pubblicato a patto di sostituire il voi al lei nella frase: «scusi, potrebbe dirmi che ora è?». Nello stesso anno Maria Bellonci fu costretta a emendare una vita di Lucrezia Borgia perché troppe frasi rischiavano di offendere il senso del pudore se le fonti non fossero state riportate in latino.
Nel 1941, dopo l’entrata in guerra degli Stati Uniti, l’editore si piegò a italianizzare le strisce americane di «Topolino» per compiacere il gerarca Pavolini. Sono solo tre degli episodi paradossali riportati da Giorgio Fabre in Il censore e l’editore Mussolini, i libri, Mondadori (Fondazione Mondadori, pp. 525, e 24,00) basato sulla documentazione dei rapporti tra Mussolini e il più grande editore d’Italia. Ne viene fuori un affresco della cultura, delle politiche di traduzione e delle scelte imprenditoriali dell’editoria che non si limita affatto, come suggerisce il titolo, a parlarci del controllo fascista sul marchio milanese.

Fabre ha lavorato a lungo sul razzismo di Mussolini e questo testo, in continuità con i precedenti, segna un punto di svolta nel 1934, quando – dopo i roghi tedeschi ordinati da Goebbels – il regime colpì il romanzo Sambadù, amore negro di Mura. Non era un libro Mondadori, ma da quell’anno (in cui venne fondato un Sottosegretariato alla Stampa, prima che la censura passasse al Minculpop) fu l’editore milanese, intento a guadagnare nuove fette di mercato, il principale destinatario delle attenzioni del Duce, che trascurava quanto Laterza stampava per i professori ma intendeva controllare ciò che mirava a conquistare il lettore medio.

I due, Arnoldo e Benito, non si amavano; e sebbene Mondadori fosse l’editore dell’ufficiale Libro del fascista non era uomo da cedere alle chiusure strapaesane che finirono per prevalere nel Ventennio (la parabola di Margherita Sarfatti fu una cartina di tornasole). Mussolini dal canto suo voleva apparire come il terminale della cultura nazionale, l’editore degli italiani, il capo di un movimento che non esaltava la censura; e questo spiega perché talvolta si sia mostrato meno ottuso di alcuni ministri, prefetti e funzionari di polizia.
Il Duce vagliò di persona numerosi testi e prese di mira la produzione straniera (specie russa e americana); quella che suonava come anti-italiana (le memorie del prefetto Mori); quella che minava il suo progetto razziale; i testi che rievocavano la Grande Guerra con spirito critico (fra questi, Remarque) e la letteratura di consumo incline alla cronaca disfattista e alla pornografia (i Promessi Sposi di Guido da Verona; Pitigrilli, anch’egli ebreo).

Furono soprattutto le traduzioni a passare sotto la lente censoria, specie dopo il consolidamento dell’intesa con Hitler. Ma Mondadori, che vedeva nella letteratura straniera una miniera di novità, continuò a coltivare il rapporto con gli editori d’Oltralpe. Rifiutò la traduzione italiana del Mein Kampf; introdusse le opere di Mann ed elaborò strategie per sfuggire alla polizia, stampando alcuni testi nella Svizzera italiana. Inoltre, dopo il 1938 mise da parte i versamenti per i diritti spettanti agli autori ebrei convinto – forse – che la svolta razzista di Mussolini sarebbe durata poco.

Dal ritratto di Fabre non viene fuori un imprenditore avverso al fascismo (Arnoldo non lo era, sebbene meno allineato di Bompiani): i suoi rapporti con le istituzioni erano tanto solidi che l’Iri ne sostenne gli investimenti. Eppure egli seppe difendersi dagli attacchi insinuanti di alcuni letterati (Brancati, Interlandi). Fabre racconta poi come funzionava una censura che, lungi dall’essere onnipotente, dovette fare i conti con alcuni esponenti della Chiesa (Gemelli), con l’Indice cattolico (che fulminò d’Annunzio) e con i progetti di Mondadori, che pure fu costretto a emendare molti testi (le traduzioni di Agatha Christie furono infarcite di frasi antisemite) e a chiudere una collana («Romanzi della guerra»). Furono censurati autori come Werfel, Maugham, Faulkner, Simenon, mentre gli scrittori italiani spesso si auto-emendarono prima di pubblicare.

L’Italia fascista, grazie a Mondadori, poté leggere opere di (e su) Lenin e Trockij (cosa che avvantaggiò la riflessione di Gramsci); ma Mussolini fu attento a costruire il proprio monumento vagliando le biografie a lui dedicate (come quella di Aniante) e sviluppò un’ossessione per il controllo dei calendari popolari. Se alla lettura di queste pagine la censura fascista apparirà meno politica di quanto ci si aspetti è perché sotto il fascismo divenne politica anche la scelta di cosa tradurre o cosa proporre a un pubblico di lettori che in Italia crebbe nonostante il Regime.

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