Non è una classifica scientifica, riguarda solo la guerra convenzionale (quindi non il nucleare) e la scelta dei dati esaminati è più che opinabile. Però il Global Firepower Index (Gpi) risulta fra i documenti oggi sul tavolo dei ministeri della difesa di almeno 145 Paesi e resta sintomatico del concetto di potenza militare, spesso contro-intuitivo.

Conta, come sempre, il numero e la tecnologia di aerei, navi e carri armati in dotazione ai singoli Stati oltre alla capacità di impiegarli in modo coordinato e continuativo nei teatri di guerra, ma anche la posizione geografica, vocazione logistica, demografia, disponibilità di manodopera specializzata e la peculiare predisposizione economico-finanziaria di ogni sistema-Paese.

Il Gpi del 2024 appena pubblicato svela il ruolo crescente dell’Italia che ha raggiunto la Top-10 mondiale della classifica bellica convenzionale. Secondo l’analisi di 50 diversi indici (non tutti precisati nella stima) nella Nato, esclusi gli Usa, Roma conta meno di Londra e Ankara ma più di Parigi, Berlino, Madrid e Varsavia.

Così almeno segnala il «power-index» mondiale (più basso è, maggiore è la forza in caso di conflitto non nucleare) pari a 0,186 per l’Italia contro 0,187 della Francia, 0,194 del Brasile, 0,226 dell’Iran e 0,259 di Israele.

In questo quadro il “posto al sole” dell’Italia immaginato dal governo Meloni sembra già acquisito senza il bisogno di investire miliardi per rinnovare da cima a fondo le forze armate. Per raggiungere l’obiettivo, a quanto pare, è bastata la dotazione di «soli 63 missili» all’esercito e sono stati pure sufficienti i vetusti tank Ariete. All’attenzione del ministro Guido Crosetto che pare concentrato a far crescere il «power index» tricolore – magari costituendo battaglioni di riservisti, come ha dichiarato, e partecipando a missioni armate dal vicino Mar Rosso fino alla remota Taiwan.