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Armando Punzo, l’avventura estrema del teatro

Armando Punzo, l’avventura estrema del teatroArmando Punzo, foto di Nico Rossi

Intervista Leone d'oro alla carriera al grande regista e drammaturgo: intervista

Pubblicato quasi 2 anni faEdizione del 21 gennaio 2023

Riproduzione parziale dell’intervista completa a Armando Punzo in “Sguardi sul teatro contemporaneo. Interviste di Fabio Francione”, di Fabio Francione, edito da Libri Scheiwiller:

 «Un teatro che copia la realtà è depotenziato, ci vuole un teatro che crei un’altra realtà. L’arte in generale deve essere l’innesco per creare un’altra realtà, non copiare la realtà con la scusa di farci vedere come siamo. Bisogna rappresentare altro dell’uomo, altri bisogni, altre necessità. Quello che sto facendo dentro il carcere, e sto affinando questa mia idea, è proprio al servizio del sognare un uomo nuovo, e quindi abbiamo bisogno di un attore ideale e un teatro che sia capace di fare questo».

La tua attività è tutta concentrata a Volterra, all’interno del carcere, con la compagnia che hai fondato e contribuito a far crescere in più di trent’anni di fervide invenzioni, tra spettacoli, tournée, festival e, in ultimo, il primo mattone del primo teatro stabile in carcere prossimo a venire. Quando si dice, con tua felice intuizione, l’impossibile diventa possibile. Aggiungo: basta crederci. Però cominciamo dai tuoi inizi, dalla scoperta del teatro, da dove vieni.
A Volterra ci sono arrivato per il Gruppo Internazionale L’Avventura che veniva dall’esperienza di Grotowski. In più occasioni ho parlato di quell’esperienza, anche nel mio ultimo libro di conversazioni con Rossella Menna, Un’idea più grande di me. A ogni modo, arrivo a Volterra negli anni 1982-1983. Non ero a digiuno di teatro, avevo già cominciato a far pratica a Napoli. Nei fatti partecipo a Viae, un progetto residenziale dove si viveva insieme, si dormiva, mangiava, lavorava in spazi che si trovavano in una villa settecentesca poco fuori della città di Volterra. E vi trascorro una settimana di lavoro intensivo: mi era sembrato talmente incredibile il fatto che non avesse a che fare con la rappresentazione, col teatro comunemente inteso, ma che fosse legato fortemente a quella che era un’idea performativa di fare esperienza, cioè un’esperienza altra, diretta, un lavoro quasi parallelo al teatro ma molto più profondo, che ti toccava dentro, ed è allora che comincio a pensare seriamente a un altro modo di fare teatro, all’esistenza di altre possibilità di espressione.

Con  «L’Avventura» sposavate interamente le teorie dell’estremo Grotowski?
Bisogna pensare che nell’Avventura c’erano le guide che avevano lavorato all’ultimo progetto di Grotowski e avevano dato vita al progetto di Volterra. Quindi, riallineando un po’ di storia: nel 1980 l’ISTA di Eugenio Barba arriva a Volterra e lascia questa eredità del gruppo L’Avventura. Mi spiego: gli incontri dell’ISTA finiscono a Volterra e viene utilizzato per le loro attività il teatro di San Pietro, il teatro che poi sarebbe diventato la sede di Carte Blanche, il braccio organizzativo e operativo della Compagnia della Fortezza, e anche altri luoghi di Volterra, dove venivano ospitati altri partecipanti. L’ISTA di Eugenio Barba è stato un fatto storico molto importante per gli sviluppi del teatro a Volterra.

Barba sicuramente si ricorda sia di Volterra sia di tutti questi passaggi, di quell’edizione che risulta fondamentale ancora oggi retrospettivamente. Quando è finita l’ISTA, dunque, è rimasta questa eredità, questo gruppo che ha lavorato poi nel teatro di San Pietro e l’ha rimesso in ordine e ristrutturato, ed è quindi nata una nuova esperienza. Io ero a Napoli, avevo iniziato il mio rapporto col teatro, avevo letto Per un teatro povero di Grotowski: rimasi colpito dalla parte dedicata all’attore-prostituta e da quella riflessione, dopo essermi preparato per l’esame di Storia del teatro, ho deciso che avrei fatto il regista. Quindi per me è stato naturale partire per Volterra e incontrare un gruppo proveniente dall’esperienza di Grotowski e con Grotowski ancora vicino a tutta questa esperienza. Insomma, l’ho incontrato anche in quelle occasioni. Finita l’Avventura ho deciso di ritornare al teatro ed è lì che a un certo punto, stando dietro la finestra del teatro, vedevo il carcere.

Ecco, adesso ci arriviamo. Ma prima ti sei sempre ritenuto un regista, al di là che tu come corpo appari e guidi in prima persona gli attori in scena?
No, inizialmente non andavo mai in scena – anche se avevo un vissuto da performer, ero abituato a stare in scena –, agli inizi in carcere vivevo più da regista. Tranne laddove c’è stato bisogno, nel processo creativo cominciato con la Gatta Cenerentola. Ma, tornando all’immagine evocata poco fa, alzando gli occhi verso il carcere ho detto:  «È lì che creerò la mia compagnia di teatro».

Ed è nata la Compagnia della Fortezza.
È nata così. Dentro il carcere sono arrivato e abbiamo studiato la Gatta Cenerentola, che è stato il primo tentativo di laboratorio di teatro, e successivamente allestito lo spettacolo. Dentro il carcere ho trovato tutta una comunità di napoletani che si era iscritta a questo laboratorio, e loro chiaramente mi sfidavano

– Però ci devi essere anche tu – con la parte di Femminella, questa parte storica nella Gatta Cenerentola, e io a ribattere:  «Che problema c’è?», anche perché ero stato io ad averli invogliati a travestirsi, erano tutti travestiti, in tutte le parti femminili, e dunque mi sono detto:  «Lo faccio anch’io». Così mi sono ritrovato in scena.

Quindi sei andato sulla tradizione elisabettiana.
Sì, esatto, ed era anche normale che io usassi il napoletano che è stato un ponte per cominciare a dialogare con loro, un territorio dove ritrovarci, in qualche modo, trovarci e ritrovarci. E così è iniziata quest’avventura.

Conoscevi già l’esperienza di teatro in carcere o ti sei ritenuto subito un pioniere, come se fossi il primo a entrare in carcere e a provare a far teatro, a produrlo, direi, meglio, a generarlo?
L’ho pensato in questi termini, poi ho scoperto che c’erano, chiaramente, altre esperienze. E avevo come esempio quella importante in America di Samuel Beckett, con questo detenuto- attore, Rick Cluchey, che ho fatto venire anche a Volterra a recitare L’ultimo nastro di Krapp in una delle edizioni del Volterra Festival.

E attraverso Cluchey, io ho scoperto te. Perché sono venuto a Volterra, al festival, la prima volta, proprio per vedere Rick Cluchey, perché avevo organizzato la retrospettiva di Beckett con tutti i suoi film, con cinquanta e più video, con il Comune di Milano per il centenario nel 2006.
Ecco, dopo mi sono reso conto che c’era, chiaramente, questa esperienza, che era, penso, di almeno venticinque, trent’anni prima di noi. Ma per quanto riguarda l’Italia sono arrivato credendo che fosse la prima esperienza e poi ho scoperto che era così, nessuno prima aveva fatto una scelta del genere: c’erano attori, artisti di vario genere che avevano portato i loro spettacoli dentro il carcere. C’era stato qualcosa a Roma, ma erano sempre cose temporanee, facevano uno spettacolo e poi era finita lì.

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