Quante cose mi mordono il cuore! E i piaceri pochi, pochissimi. Ve ne siete accorti? Da anni oramai le piazze sono vuote, ma un tempo erano pieni di gente, bambini che giocavano. Mo’ nun c’è sta’chiù niusciun’, i giovani sono stati mandati tutti in guerra, i bambini nascosti sottoterra. Ma come si può vivere così?». Così dice Giustino di Ceopoli, “o’ pacifista”, dopo un prologo disarmante in cui ragazzi e ragazze soldato si accasciano in terra, uno sull’altro, sotto i colpi di fucile che rimbombano nella cavea del Teatro Grande di Pompei. Al coro/ assemblea Giustino (Nunzio, 18enne di Torre del Greco con un talento innato per la scena) propone la fine del conflitto che da anni incendia Sparta e Atene, ma nessuno vuole ascoltarlo. Sono tutti allergici alla parola «pace». Inizia così Acarnesi- stop the war, secondo lavoro che Marco Martinelli ha costruito nel Teatro Grande di Pompei con oltre 70 adolescenti del vesuviano per il progetto «Sogno di volare» (co prodotto da Ravenna Festival, il Parco Archeologico, Stabile di Napoli e Giffoni Film Festival). La «rimessa in vita» di uno dei primi testi di Aristofane da parte delle ragazze e i ragazzi di Pompei, Torre del Greco e Castellammare e un coro di bambini napoletani è un pugno nello stomaco. Il drammaturgo ateniese, con le sue invettive contro una guerra consumata sui corpi della povera gente, mirata a gonfiare il mercato delle armi, in una democrazia mutilata, dove ogni forma di dissenso è messa a tacere, dal 425 a.C. parla direttamente a noi. E lo fa attraverso la bellezza poetica, il puro tumulto di un gruppo di giovanissimi che, attraverso la pratica eretica della non scuola, si sono (ri)appropriati di quel testo e di quelle parole, facendole loro. Anche quest’anno, dopo il debutto nel Parco Archeologico, lo spettacolo farà tappa stasera al Teatro Alighieri di Ravenna. Ne abbiamo parlato con Marco Martinelli, coreuta e artefice, assieme alle guide Gianni Vastarella, Valeria Pollice e Vincenzo Salzano, di questo progetto che apre discorsi intorno alla potenza del connubio giovani/ teatro.

Com’è stato questo suo ritorno a Napoli?

Napoli me la porto dentro fin dall’infanzia, quando mio padre mi faceva vedere i film di Totò, per scoprire poi Eduardo e tutta la drammaturgia del teatro napoletano. È stato un ritorno di grande felicità, riprendendo il filo di Arrevuoto, col piacere di tornare a lavorare con questi adolescenti, sempre scatenati e dionisiaci.

«Acarnesi -stop the war». Ancora Aristofane, che mai come questa volta ci parla proprio di noi…
Aristofane è il mio antenato totem. Una sorta di primo grimaldello d’oro, per questo senso adolescenziale di sovvertimento del mondo, di furia contro ciò che non va e anche grande «desiderio di volare». Incarna queste pulsioni della nostra psiche in maniera perfetta. Questa volta ho voluto approfondire un suo testo che non avevo mai messo in scena, c’è un mio piacere di scavare in questa drammaturgia che è un esempio perfetto di come l’antico non sia antico.Troppo spesso vedo persone che mettono in scena adolescenti, usandoli. Occorre partire da una gioia, da una vera condizione umana di relazione

Come reagiscono i ragazzi a un tema così scottante – e ritornante – come la guerra?

Marco Martinelli, foto di Lidia Bagnara

Da una parte gli adolescenti sono sempre quello che eravamo noi quando avevamo la loro età. Ma questi sono anni ancora più fragili, ancora più delicati, dopo la pandemia e ora con questo conflitto nel quale siamo immersi. I ragazzi questo lo sentono tanto. In questi mesi più volte si sono chiesti: ma se qualcuno lancia un nucleare? È ritornata quell’angoscia degli anni ’60, quando America e Russia avevano stipulato un patto e il rischio di una fine dell’umanità era tangibile. A proposito di costanti che ritornano: siamo lì. Allo scandalo della guerra sembra non ci sia mai fine. La Nato ci chiede di usare il due per cento del PIL in armamenti, eppure scuola e sanità dovrebbero essere i fondamenti di una nazione civile, non gli F16.

La pratica della non scuola, e le opere che ne derivano, si basa prima di tutto sull’ascolto

È la pietra angolare su cui costruire tutto, senza quella non può succedere nulla. Troppo spesso vedo persone che mettono in scena adolescenti, usandoli. Sarebbe meglio di no. Occorre partire da una gioia, da una vera condizione umana di relazione. Su quella si può costruire bellezza, opere, linguaggi artistici. Ma se non si parte da lì tutto è vano, e tante volte deprimente, brutto.

Questo è un progetto di «lenta semina» che prosegue dall’anno scorso

È importante questo mescolarsi di generazioni e esperienze. Tra i ragazzi si crea un legame, quelli che appartengono allo «zoccolo duro» iniziale possono trasmettere la loro esperienza ai nuovi arrivati. Si contaminano con la timidezza, le paure, il desiderio di chi sale sul palco per la prima volta. In una pesca così larga, saltano fuori dei talenti. Noi li mettiamo semplicemente in condizione di emergere. Mi auguro che il direttore Zuchtriegel possa continuare il suo lavoro: è la dimostrazione dell’importanza del saper stare in relazione, anche tra generazioni diverse. Vale lo stesso principio di trasversalità e reciproca intelligenza tra compagnie, artisti, istituzioni. Viva le istituzioni, quando sono illuminate e si mettono insieme per dare vita a questo tipo di progettualità.

Stasera Acarnesi andrà in scena a Ravenna. Com’è la situazione lì?

Sembra che il momento più terribile sia passato. Sai come si è salvata Ravenna? La cooperativa dei braccianti agricoli ha permesso al Comune di rompere un argine e allagare tutti i loro territori ai margini del centro. Tutto questo mi fa pensare di nuovo ad Aristofane. Hanno deciso di farlo a prescindere, anche col rischio che non li rimborsino. È stato un atto di coraggio, lo spirito più bello dell’umanità. Andremo in scena e sarà un segnale forte, anche per la città ferita.