Cultura

Argo ed Enkidu. La morte animale che ci riguarda

Argo ed Enkidu. La morte animale che ci riguarda

SCAFFALE «L’ultimo scodinzolio», di Raffaele Mantegazza per Ortica

Pubblicato più di 4 anni faEdizione del 4 aprile 2020

L’inizio della letteratura di quella macchina di distruzione universale che chiamiamo «Occidente» ruota attorno alla morte dell’«animale», nelle due accezioni che questo termine ha assunto con Derrida: morte di una singolarità vivente e morte di un singolare collettivo (che l’umano ha cacciato per definirsi tale). Stiamo parlando di Argo, lo sfortunato levriero che Odisseo abbandona a una lunga morte tra zecche e letame, e di Enkidu, l’ibrido compagno di Gilgamesh, che pagherà con la vita l’oltraggio dell’umano alla dea Ishtar. Poste in momenti decisivi della narrazione (cosa sarebbe successo se Odisseo si fosse lasciato riconoscere e se Gilgamesh avesse accettato la propria responsabilità?), le morti di Argo ed Enkidu suscitano reazioni opposte nei due compagni umani: il primo emette una sola lacrima e gira lo sguardo altrove, mentre il secondo si dispera e piange amaramente.

È PROPRIO a partire dall’ambiguità del nostro rapporto con gli animali – che si acuisce nel momento della loro scomparsa – che si snoda il libro di Raffaele Mantegazza intitolato L’ultimo scodinzolio (Ortica, pp. 177, euro12), libro che, con intelligenza e intensità, si consolida, strato dopo strato, attingendo ai materiali più disparati, dalla filosofia alla musica pop, dalla poesia al cinema.
La reazione di fronte alla morte degli animali, ci ricorda Mantegazza, assume volti opposti – assoluta indifferenza o lutto inconsolabile – non tanto per caratteristiche psicologiche individuali, quanto piuttosto a causa delle modalità attraverso cui si realizza: decesso «naturale» o messa a morte. Un conto, infatti, è la morte degli animali con cui abbiamo condiviso un tratto della nostra vita e un conto è la morte degli animali che a miliardi vengono uccisi nei mattatoi e nei laboratori per alimentare le «magnifiche sorti e progressive» dell’umano.

Tra queste due morti – tra la morte compianta di chi è stato vivo e la morte scontata di chi è da sempre già morto – si vengono a formare gli obiettivi della riflessione di Mantegazza. Il primo: imparare a morire. Ormai sono milioni gli animali che vivono con noi e, data l’aspettativa di vita inferiore alla nostra, è con la loro fragilità, vecchiaia e morte che facciamo esperienza, spesso per la prima volta, della vulnerabilità e della finitezza del vivente: «l’animale porta la coscienza della morte e della brevità della vita dal livello intellettuale a quello profondamente esistenziale».

Il secondo: imparare a lasciar vivere. «Il senso del limite», che la morte dei nostri animali dovrebbe insegnarci, allo stesso tempo dovrebbe anche renderci capaci di «dare un volto a milioni di morti anonime», a riconoscere che la logica dell’«io lo faccio perché posso farlo» è la logica dell’attuale necropolitica planetaria e industrializzata che proprio sull’animalizzazione della vite precarie fonda la sua ragion d’essere.

A DIFFERENZA di quanto pensava Heidegger, gli animali non cessano di vivere, ma muoiono al di là di ogni ragionevole dubbio. E quando qualcuno o qualcuna muore è un intero mondo che scompare. Per questo, di fronte a questa immane scomparsa di movenze, percezioni, ricordi e prospettive, il lutto è un fatto intimamente politico, come insegna Butler, in quanto condivisione della vulnerabilità e ineludibile passaggio verso la creazione di nuovi legami sociali.

Da qui la necessità per il movimento antispecista di smettere di «privatizzare» il lutto per la morte degli animali e di trasformarlo nella intransigente rivendicazione pubblica di una rabbia sempre più incontenibile e del desiderio altrettanto bruciante di trasgredire il confine di specie in direzione di una comunità che si faccia carico di quella che Landolfi, a proposito della morte violenta di un topo, chiamò «povera carne viva». Povera carne viva che anche noi siamo.

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