Una delle opere più iconiche del Museo Nazionale Romano, esposta nella sede delle Terme di Diocleziano, è un mosaico del III secolo d.C. – rinvenuto sulla Via Appia, fuori Porta San Sebastiano – che rappresenta uno scheletro in tessere nere su sfondo bianco. Sembra quasi di vedere il personaggio di un fumetto ante-litteram e in effetti – proprio come in una striscia – la tetra figura è accompagnata dalla celebre locuzione greca gnôthi sautón (conosci te stesso), apoftegma attribuito ai Sette Sapienti, che secondo la tradizione letteraria campeggiava sul frontone del Tempio di Apollo a Delfi e che Socrate adottò come massima filosofica. Ma quanti, pur attratti dal singolare reperto, sono in grado di decifrare la «legenda» e di associarla alla visione romana della morte? Di certo, pochissimi. D’altra parte, se l’epigrafia permane una disciplina estranea persino a molte categorie di antichisti, non si può esigere che risulti familiare al grande pubblico. Eppure, le iscrizioni latine e greche – restando alle lingue principali dell’impero romano – sono fonti imprescindibili per apprendere non solo eventi rilevanti della Storia – si pensi alle Res Gestae divi Augusti, originariamente incise su tavole di bronzo e tramandateci dalla copia scolpita in latino e in greco nel Tempio di Augusto e della dea Roma ad Ancyra (odierna Ankara) –, ma anche i differenti aspetti di una civiltà, riguardanti sia la sfera pubblica che privata.
Valorizzare simile patrimonio di memorie registrate su materiali durevoli quali pietra, legno o metallo è, nei contesti museali, impresa affatto agevole. Di fronte ai monumenti epigrafici – are, stele, lastre, cippi, basi di statue e altri supporti «nobili» – ci si ferma quasi sempre richiamati dal fascino (o dal mistero) della scrittura. Non tutti però sono in grado di riconoscere l’identità di un decreto, di un’invocazione agli dèi o di un epitaffio. Quanto alle iscrizioni su oggetti di piccole dimensioni, come ad esempio monete o medaglie, di solito esse sfuggono all’attenzione dei visitatori. Spesso non sono di ausilio nemmeno le didascalie, le quali forniscono, nella migliore delle ipotesi, la trascrizione del testo con relativa traduzione. Saremmo quasi portati a credere che ancor oggi l’epigrafia – con le sue abbreviazioni, le sue formule e le sue lacune – concerna il campo dell’esoterismo, come un tempo l’archeologia era «dottrina» riservata ai soli specialisti.
Un tentativo di avvicinamento a questa materia ostica e impopolare arriva ora da Carlotta Caruso, che con il libro 101 Storie svelate Le iscrizioni del Museo Nazionale Romano raccontano Roma (Dielle, pp. 226, euro 18,00) inaugura una nuova serie editoriale dell’istituzione diretta da Stéphane Verger. Il volume nasce da un progetto sperimentato con successo sui social network nel periodo più buio della pandemia di Covid-19, quando i musei erano chiusi e le iniziative virtuali si moltiplicavano. In quel periodo venne lanciato il format #StoriedaMNR, attraverso il quale Caruso promuoveva una selezione di iscrizioni appartenenti alla nutrita collezione dell’ente dove esercita il mestiere di epigrafista. Nell’intento di conquistare il pubblico dei non addetti ai lavori (ma in verità anche questi ultimi), l’autrice rinuncia alla descrizione tecnica dei documenti mettendo a frutto, piuttosto, un autentico talento narrativo. Caruso non procede seguendo unicamente il metodo scientifico ma, allo scopo di rendere umane le vicende o le informazioni che le iscrizioni trasmettono, si lascia trasportare dall’immaginazione. La sua è quasi una «licenza poetica» giacché non si tratta di inventare tout court, come càpita talvolta anche a studiosi affermati smaniosi di imporre le proprie indimostrabili teorie, ma di ricostruire un passato accessibile a chiunque, partendo da elementi peculiari delle più svariate iscrizioni.
Lo storytelling si dipana tra mestieri, sentimenti, maledizioni, carriere politiche e quel desiderio di guadagnare la posterità espresso dai personaggi che l’autrice sceglie di (ri)animare. Il risultato è convincente a tal punto che, nel leggere le storie di Iulia Capriola che odiava le scarpe, di Flacca che ricevette un profumato dono d’amore, di Euenus, Menander e Charito preposti alla custodia dell’anfiteatro di Statilio Tauro o ancora di Licinia Amias che non sapeva se abbandonare i vecchi dèi per convertirsi al cristianesimo, ci si dimentica per un momento che si tratta di fiction. Ma in fondo, gli studi classici non hanno bisogno per sopravvivere anche di divulgatori che, senza banalizzare e attualizzare a tutti i costi i dati archeologici, sappiano renderci abitanti del mondo antico?
«La sua vita avrebbe ripreso il suo corso e tutto grazie a quello sconosciuto. Se avesse potuto parlargli glielo avrebbe detto “Combattendo e vincendo non hai salvato solo la tua vita ma anche la mia!”. Eppure sentiva di doverlo dire a qualcuno. Raccolse da terra una pietra ben appuntita e, premendo con forza, incise “Il trace ha vinto dieci volte”. Incisa su quel muro, la sua gioia prese corpo: lì sarebbe rimasta a lungo, pronta per essere condivisa ogni volta che qualcuno, passandoci davanti, si fosse fermato a leggerla» (da un frammento di intonaco rosso, I secolo d.C.).