Cultura

Arcipelaghi della devastazione

Arcipelaghi della devastazioneUn’installazione di Hale Tenger (foto di David Levene)

MOSTRE La 16ma edizione, visitabile fino al 10 novembre, è dedicata al «Settimo Continente», ovvero plastiche e detriti. Tra il Msfau, il Pera Müzesi e l’isola di Büyükada è curata da Nicolas Bourriaud. Il parallelo è tra l’ambiente misto, destrutturato eppure molto compatto e il momento in cui viviamo

Pubblicato circa 5 anni faEdizione del 3 ottobre 2019

La sedicesima Biennale di Istanbul (visitabile fino al 10 novembre), curata da Nicolas Bourriaud e dislocata tra il Msfau-Museo di arte contemporanea di Istanbul, il Pera Müzesi e la lussuosa, seppur un po’ decadente, isola di Büyükada è dedicata al Settimo Continente, quell’immensa isola galleggiante di oltre tre milioni di chilometri quadrati che naviga negli oceani. Un nuovo continente che è stato creato da ciò che non vogliamo, da ciò che rifiutiamo e al tempo interamente esito di scelte tutte umane. Gigantesca materializzazione di un’era di alterazioni sostanziali degli equilibri naturali che obbligatoriamente chiamiamo Antropocene, categoria non stabile benché forte.

QUESTO CONTINENTE è composto in gran parte da frammenti di plastiche e detriti piccoli fino alla irriconoscibilità. Bourriaud crea un parallelo tra questo ambiente misto, destrutturato eppure compattissimo e il momento in cui viviamo, dove «anche le norme e le culture si sono frammentate, quasi a livello cellulare. Non ci sono più centri, né modi monolitici di pensare, solo una specie di arcipelago di pensieri disparati». Il curatore scrive nel catalogo un corposo saggio introduttivo che colloquia col disastro antropogenico e che divide in paragrafi dove i nomi delle artiste e degli artisti sono rimandi a una sorta di antropologia molecolare (secondo la sua definizione), a questo aggiunge una lunga conversazione con molti di loro.

L’INTENTO è quello di creare una specie di «neghentropia» entro cui la destrutturazione espressa da ogni singola opera si dovrebbe ricomporre in un ordine dove muoversi con meno inquietudine di quanto il titolo della Biennale solleciti. Non è un caso che una delle parole chiave che accompagna il visitatore sia algoritmo, in una volontà di ridisegnamento algebrico del mondo da cui, per fortuna, l’arte da sempre si divincola. Un composto rappresentato da un sistema di concetti molto solidi non sempre facilmente correlabili alla produzione artistica che dovrebbe essere lo scheletro dell’esposizione, ma che spesso rischia di depotenziare, levare senso al lavoro degli artisti o quantomeno costruire una sorta di discrepanza tra progetto e opere che spesso corrono in bilico sul lungo filo del didascalismo.

Ma se è vero che l’arte riorganizza comunque il linguaggio intorno alle cose, un filo narrativo per figura che consente di muoversi dentro questo continente esiste e sono non poche le coordinate da usare. Suzanne Treister compone uno spazio enciclopedico incentrato sulla coloratissima rappresentazione delle decine di piante psicotrope che in tutto il pianeta sono state usate per sollevare la coscienza dall’essere un principio ordinatore insieme alla modificazione di un algoritmo di trading per lo spostamento globale di capitali. Ne esce fuori un enorme, spaventoso universo olografico in cui le multinazionali e gli alcaloidi si compongono in un incubo accogliente. Accoglienti non sono gli amati personaggi delle favole e dei comics di Simon Fujiwara, trasformati in rovine trash a segnacolo di un’architettura che diventa ovunque, quand’anche bellissima, un cigolante, agghiacciante luna park dove le carcasse-edificio di Mazinga, di Bart Simpson o di Cenerentola contengono prigioni distopiche indifferentemente sex shop, palestre, ospedali, scuole o caserme.

SE JOHN CHAMBERLAIN doveva compattare pezzi di automobili per indicare l’accartocciarsi del consumismo, la polacca Agnieszka Kurant ha il tempo dalla sua, lavorando su una formazione ibrida naturale-artificiale, che incorpora la vernice automobilistica nota come Fordite o Detroit Agate rappresa in una specie di antica formazione geologica che l’artista unisce a formazioni di cristalli liquidi simili all’ambra, ma che, anziché custodire come la preziosa resina insetti e resti animali, contengono, forse sigillano, le emozioni espresse nei social media da gruppi di protesta. Il tailandese Arunanondchai istalla video e pitture in cui l’incrocio culturale trasformato in luogo main stream (il funerale del re tailandese e l’elezione di Trump) e il lento venir meno di una memoria individuale pongono la questione di una vera possibile apocalisse, quando cioè la memoria collettiva diventa semplice, isterico loop e quella del singolo non è in grado di reggere la storia allora sì che il collasso, non della natura ma del culturale, può considerarsi imminente.

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