Arci si apre al mondo, donne come esempio
Il Congresso A Pescara il racconto di chi è arrivato in Italia e di chi difende migranti e aborto. L’esperienza della associazione polacca Strajk Kobiet colpisce i 540 delegati
Il Congresso A Pescara il racconto di chi è arrivato in Italia e di chi difende migranti e aborto. L’esperienza della associazione polacca Strajk Kobiet colpisce i 540 delegati
A 23 anni, Sakina Kanice, italiana doc e con famiglia di origini africane, racconta del razzismo patito in una città come Brescia. «Ero sempre la marocchina. Me lo sono sentito ripetere, sprezzante, nonostante io sia nata qui; nonostante con la lingua primeggiassi…la marocchina…», ripete, con quel suo grande sguardo nocciola che si commuove.
Ma racconta anche della multiculturalità di Pavia, dove frequenta l’università; della sua esperienza a Radio Aut, dell’impegno, come volontaria e, in ultimo, come attivista di Leu. E di una cosa è convinta: «L’Arci – dice – è il galleggiante di una sinistra a pezzi. È formazione, politica, sociale, culturale, ambientale; è consapevolezza e coscienza; è sensibilizzazione; è solidarietà senza preferenze e senza etichette; è laboratorio di umanità e di opportunità; è radicamento e tutela e voce dei valori che, partendo dal basso, possono tornare a scuotere indifferenza ed individualismo. Puoi stare lì, anche a far festa e a sbronzarti, – afferma – e al contempo discutere del governo e di Pericle, e dei movimenti per i diritti che operano nel Sahara».
Le sue parole fanno breccia al Congresso nazionale Arci in svolgimento a Pescara. Islamica e di sinistra, si definisce; mentre esulta sui social per essere entrata nel Consiglio regionale Arci della Lombardia, è rammaricata dal fatto che i suoi genitori «marocchini operai, emigrati a Brescia» non riescano ad apprezzare questo suo pensiero ed abbiano «una idea di felicità diversa». Lei è uno dei mille volti dell’Arci che, in questi giorni, in Abruzzo, si confronta e si scontra, cercando e tentando, al proprio interno, a 61 anni dalla fondazione, una ripartenza, comunque forte e cosciente di essere, nell’era del fallimento dei partiti, «l’unica presenza politica piantata sui territori», con oltre 4.400 circoli. «È un congresso – come fa presente anche la presidente nazionale Francesca Chiavacci – che cade in una fase complicata e difficile, che viene dopo quello traumatico del 2014 a Bologna. Sono stati quattro anni che hanno navigato in una sorta di sospensione, pur riuscendo a far avvicinare, più di prima, a mio parere, idee e modalità diverse di essere Arci, senza però arrivare a un livello di definizione tale da poter portare poi strumenti e funzionalità conseguenti. Sono stati anni vissuti pericolosamente, in cui comunque all’Arci non sono mancate né l’azione politica né l’interlocuzione verso l’esterno». «È necessario guardare avanti – tuona Massimo Iotti, presidente del comitato provinciale di Parma, forte dei suoi 40mila iscritti -. Servono rinnovamento e un cambio di passo; occorre un progetto diverso, coinvolgente, che finora non abbiamo visto. E poi c’è bisogno di unità».
Sulla scena Arci si affaccia un nugolo di ospiti. Jean Robert Suisser, vicepresidente del Forum civico europeo, lancia, in vista delle elezioni europee del 2019, la campagna «Make Europe great for all», di cui la giornata più importante sarà il prossimo 10 dicembre, settantesimo anniversario della Dichiarazione universale dei diritti umani: quanti sono impegnati nell’associazionismo indosseranno qualcosa di giallo, gridando «Neanche un giorno senza di noi». «L’emergere e il rafforzarsi di movimenti e partiti populisti e razzisti – rincara Chiavacci – non riguarda solo l’Italia, ma tutta l’Ue. La resistenza e la costruzione di un’alternativa passano necessariamente dalla capacità di fare rete e collaborare oltre i confini». Qui s’inserisce pure Riccardo Gatti, direttore operativo della spagnola Proactiva Oper Arms, che, «nonostante i continui attacchi del governo» Conte-Di Maio-Salvini, ribadisce l’impegno della sua ong a continuare con i salvataggi dei disperati in mare. «Perché – conclude – se c’è meno gente che sta male, tutti stiamo meglio». E c’è lei, Marta Lempart, una delle leader del movimento delle donne polacche «Strajk Kobiet». «Dal 2016 – spiega – ci organizziamo e ci autogestiamo, avendo Facebook come punto di contatto. La nostra lotta è per fermare la proposta del governo di cancellare l’aborto».
Il rischio del «total ban», del bando totale, il 3 ottobre di due anni fa, ha fatto scattare la protesta in un Paese caratterizzato da una delle leggi più intransigenti d’Europa, dove si ha diritto di interrompere la gravidanza soltanto in caso di stupro, pericolo di vita per la madre e gravi malformazioni del feto. Il disegno di legge ora è fermo, mentre – rammenta – lo Strajk Kobiet è diventato uno dei più potenti movimenti civici nella terra di Wojtyla: «Ha guidato proteste per l’indipendenza giudiziaria; si è opposto attivamente alle marce dei rinati neonazisti e neofascisti; sta combattendo per evitare l’influenza della Chiesa in politica. La voce contro questa ingerenza non è mai stata così possente».
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