La sorprendente mostra in corso a Ca Giustinian Luca Massimo Barbero. Un Diavolo Amico, che presenta l’archivio di Barbero, acquisito dalla Asac della Biennale di Venezia con l’intento di ospitare archivi e fondi che si misurino con l’arte contemporanea, è una sorta di contemporanea Mnemosyne che narra il sé del curatore-demone, fondendo una idea e una mise-en-scène inusuale ed espansa. Il critico d’arte e super-curatore Barbero (Torino, 1963) fresco di nomina come uno dei curatori della prossima Quadriennale e direttore dell’Istituto di storia dell’arte della Fondazione Giorgio Cini e membro del Comitato scientifico della Collezione della Farnesina, ha ordito una costellazione immaginativa che, oltre alla connotazione avantgarde delle esposizioni e alla metodologia praticata, rinvia ad una galattica e interdisciplinare visione artistica, che ovviamente fluttua visitando le sale dipinte in giallo-blu.

La miriade di disegni foto, polaroid, biglietti di artisti, appunti di viaggio, poesie, teche di libri, cataloghi, riviste, scritti ed altro, ci restituiscono il suo pensiero critico che, quasi rizomaticamente, si avventura in un immaginario eclettico, non convenzionale. Così come l’intuizione di un archivio in progress che sarà riossigenato negli anni a venire. Nelle sale espositive si irradiano le fotografie storiche di Cameraphoto sulla Biennale di Venezia dal 1948 al 1981, dei materiali della mostra di Peter Greenaway al Museo Fortuny nel 1993, del suo fervore quindicinale alla Collezione Peggy Guggenheim, nondimeno della direzione quasi rivoluzionaria che Barbero compì alla Fondazione Bevilacqua la Masa (1998-2001) con le esposizioni di Yayoi Kusama, Shirin Neshat e della prima retrospettiva in Italia di Jean Michel Basquiat. Qui, la sua visionarietà azzardò le primissime mostre pubbliche (visto che Venezia è una città pedonale) di manifesti con progetti di artisti internazionali. Altre immagini ci riconducono al soffio galvanizzante nel dirigere il Macro di Roma (2009-2011) sia pure nell’era difficile di Alemanno, con eventi e personali di Thomas Saraceno, Gormley, Carla Accardi ed altri.

Non mancano le tracce del suo studio continuo su Lucio Fontana che nel 2006, in collaborazione con la Fondazione Fontana, traghetta al Guggenheim di New York e nel 2008 al Modern Museet di Stoccolma, con una grande mostra. La ricchezza polimorfa si protrae con una selezione di schizzi e disegni, testi e lezioni compiuti alla Scuola Holden di Torino e poi, una rarità del suo stesso fare artistico, quello di curatore-fotografo nel seguire e riprendere la nazionale di lotta greco-romana: una corporeità inaudita che ibrida arte e attività sportiva. E molto altro, per una mostra che consegna al visitatore una precisa visione curatoriale e la passione per una città-mondo come Venezia.

Come nasce e come si è modulato l’archivio?
Un archivio nasce come un albero con dei frutti che inizialmente appartengono al tuo pensiero e al suo svilupparsi nell’oggi e pian piano si sedimentano. Prima come materiali utili al procedere, poi memoria attiva. Nei decenni alcune di queste «parti di te» si nascondono, si dimenticano e riemergono ora come germinali. Non credevo, quando la Biennale mi chiese di donare l’archivio, di averne uno. Invece mi sono reso conto che tutto il lavoro, ma soprattutto il mio immaginario, era sempre stato lì. È modulato per gemmazioni, i rapporti con gli artisti, le lezioni, gli appunti e corrispondenze, allestimenti di mostre. Poi i libri, una fototeca di oltre 4000 stampe ma anche fanzine, fax, e-mail, dischi, inviti. Faldoni che contengono tutto il processo inventivo ed esecutivo di mostre, pubblicazioni. Un mondo dove nulla è prioritario se non utile a focalizzare l’«ossessione visiva». E crescerà.

Un archivio in progress è già anomalo di per sé, riflette la sua metodologia curatoriale e la molteplicità della sua visione. Ce ne vuole parlare?
Penso che la Biennale e l’Asac abbiano rinnovato il senso di archivio. Un archivio contemporaneo è vitalità non polvere filologica. In fondo la molteplicità è una sorta di polimorfismo, di immaginario inanellato che ora può essere visto come metodo. Tutto sta tra la testa e la mano. Migliaia di schizzi, disegni, progetti di allestimenti e testi critici, di teatro, saggi e anche facezie. Molte le fotografie, i ritagli da giornali, per rubare, imparare. Blocchi in cui si alternano scritti e fotografie di cronaca, sport, molta politica, che costituiscono un po’ una «lotta» dove tutto convive. Lavoro tra storia, musei, letteratura e fotografia, non amo le definizioni. Tutto partecipa al «processo»: non credo nelle ortodossie, perché credo nelle nuove generazioni.

Accanto ai materiali vari esposti, affascina la sua idea della corporeità attraverso le fotografie che lei stesso ha realizzato (una pratica non comune per un curatore) nella scuola di lotta greco-romana. Come nasce?
La fotografia è sempre stata fondamentale, fatta da me o da altri. L’immagine nella vita dell’opera o del corpo. Inizio giovane a fotografare. La corporeità è la chiave per comprendere il rapporto tra te e l’ambiente, il mondo: non è la vanità. Ho cercato dagli anni 90 sport lontani di riflettori. Per un anno ho fotografato i campionati di lotta greco-romana. Uno sport ignorato, equivocabile per la retorica che ha subito. In un presente in cui tutto è specchio non è la fisicità che si impone, ma il tempo che si dedica a una passione, un dono che non è visibilità né remunerazione. Il corpo è anche performance, rapporto con l’altro.

Come pensa che un archivio in continua costruzione possa essere fruito in futuro, soprattutto dalle nuove generazioni?
Hanno scritto che da facitore ne sono diventato un elemento. Poter essere presente, implementarlo, condividerlo con chiunque lo consulterà o gli studenti che diventeranno studiosi, lo sento come un dovere: restituire curiosità. Un archivio non è una tomba, deve essere una culla.