Archivio aperto, tra i corpi e la luce del cinema
RASSEGNE Si è chiuso a Bologna il festival curato da Home Movies. L'omaggio a Marie Menken, e per la prima volta il concorso internazionale..Il focus sul found footage
RASSEGNE Si è chiuso a Bologna il festival curato da Home Movies. L'omaggio a Marie Menken, e per la prima volta il concorso internazionale..Il focus sul found footage
Il pensiero, la poetica, la visione espansa di Stan Brakhage, il sommo autore di tutta la storia del cinema, il battito di luce e materia che inonda le sue opere grondanti stratificazioni carnali (del corpo umano, vegetale, della pellicola) è aleggiato, facendosi presenza indelebile, nel programma – ricco di contaminazioni, intersezioni, percorsi convergenti – della quindicesima edizione di Archivio Aperto (tenutasi nella città felsinea dal 20 al 24 ottobre) che, dopo quattordici anni, da rassegna si è trasformato in festival (diretto da Paolo Simoni), come sempre organizzato da Home Movies – Archivio Nazionale del Film di Famiglia di Bologna.
Una realtà ben radicata alla quale si deve il lavoro certosino e prezioso di «riscoperta del patrimonio audiovisivo privato, diaristico, famigliare, sperimentale, amatoriale e di riuso contemporaneo degli archivi cinematografici inediti e non ufficiali». Una «missione» attraverso la quale portare alla conoscenza, alla proiezione, alla visibilità, pezzi sempre più consistenti di quel labirintico, magmatico, in continuo divenire, mondo filmico rappresentato dagli home movies. E, per la prima volta, ospitando anche un concorso internazionale di film che indagano tali questioni e composto di opere tanto di lungometraggio quanto di cortometraggio, superando le barriere della durata.
STAN BRAKHAGE, si diceva. È stato impossibile non pensare ai battiti del suo cinema nell’omaggio («la più importante rassegna dedicata alla sua opera filmica finora in Italia», curata da Giulia Simi) con il quale Archivio Aperto ha reso possibile la visione di undici film di Marie Menken, figura fondamentale dell’avanguardia e dell’underground statunitense tra gli anni Quaranta e Sessanta, «sorella maggiore» della generazione che avrebbe sconvolto con le proprie rivoluzioni estetiche non solo un modo di fare cinema ma di guardarlo, di fruirlo, di viverlo (da Brakhage a Kenneth Anger a Andy Warhol, solo per ricordare alcune delle vette di quell’immenso arcipelago). Di origine lituana (vero nome Marie Menkevicius), nata a New York nel 1909 e in quella città scomparsa a 61 anni nel 1970, Menken, insieme al marito Willard Maas, poeta e cineasta, fu una pioniera che influenzò il lavoro (anche) di Brakhage (i due si frequentavano, insieme a molti altri, nell’appartamento newyorkese di Menken e Maas, crocevia di passioni da condividere). Una filmmaker che andava riscoperta ed è stato ancora più importante farlo grazie alla proiezione in 16mm dei film selezionati e presentati non in sale tradizionali, bensì in spazi alternativi che hanno ricreato una visione partecipata e underground. Impossibile rendere conto dei tanti capolavori di breve durata realizzati da Menken. E allora ne estrapoliamo uno, Moonplay, del 1962, anche per mantenere uno stretto legame con Brakhage – che quel testo di cinque minuti amò molto e che è raffigurazione di una danza lunare, di una Luna che si moltiplica sullo schermo in una serie di puntini luminosi che schizzano nell’inquadratura, rimbalzano dentro i suoi quattro lati, non riescono a uscire dal quadro, rimpallati in una vertigine in bianconero – che verso la fine accoglie anche nuvole, rami, foglie d’alberi – amplificata dagli stridori musicali della colonna sonora.
SONO STATE sempre le stanze del DAS (Dispositivo Arti Sperimentali, a pochi isolati da Piazzetta Pasolini con le sale Lumière e DAMSLab/Auditorium, altre sedi del festival) a ospitare le visioni più sperimentali. Per esempio, il magnifico focus sul cinema di «found footage» del Canada, paese scelto per inaugurare la nuova sezione Archivio Aperto «Atlante» (curata da Madison More in collaborazione con André Habib). Cinque lavori compresi tra il 1997 e il 2015. Estrapoliamo stavolta, anche in continuità con le pulsazioni di luce di segno brakhagiano, la sperimentazione pura di Imprint, opera del 1997 di Louise Bourque, cineasta franco-canadese originaria della regione dell’Acadia. Attorno a elementi ricorrenti (una casa, una bambina nel cortile, altri corpi che abitano quegli spazi), Bourque costruisce, con la ri-proposizione di immagini che, manipolate, spariscono e riappaiono, un saggio sulla visione e sulla percezione accentuato dalla presenza di un cerchio-occhio che in alcune immagini si sposta all’interno delle inquadrature generando infinite forme al tempo stesso di decifrazione e di mistero di un esperimento che coinvolge in profondità i sensi.
DAL CONCORSO ufficiale si sono impressi nella memoria alcuni corti per la loro densità formale e diegetica. Si pensi a Nazarbazi (Il gioco degli sguardi) dell’iraniana Maryam Tafakory, un «film collage» di 19 minuti composto di una moltitudine di film iraniani fatti tra il 1982 e il 2010, quindi dopo l’avvento al potere della repubblica islamica nel 1979, schegge dalle quali estrarre nuovo senso, ovvero l’esplosione del desiderio e l’impossibilità di esprimerlo se non attraverso sotterfugi narrativi in un paese che vieta in pubblico il contatto tra un uomo e una donna.
CERCANDO dettagli da portare in primo piano, utili a «ingrandire» quegli espedienti adottati da cineasti e cineaste che spesso hanno lavorato in maniera esemplare sul melodramma (l’elenco di titoli e nomi alla fine del film è come un ripasso della cinematografia iraniana degli ultimi quarant’anni), Tafakory denuda quei divieti e mostra tutta la sovversiva potenza (in questo caso erotica) che può nascere dal lavorare in un rigido regime censorio dove le restrizioni diventano sfide per creare punti di fuga.
Al melodramma guarda anche Home When You Return dello statunitense Carl Elsaesser. Memoria personale e familiare del regista e memoria dei film della cineasta amatoriale Joan Thurber Baldwin si con-fondono, fino a generare volute ambiguità nelle sovrapposizioni dei materiali, in un testo dove coesistono, e vengono rimesse in gioco, la casa dei nonni di Elsaesser e quelle da mélo sirkiano dei film della regista, volti di donne a volte cancellati, lettere manoscritte anch’esse oscurate in alcune parti. Elsaesser si diverte a depistare e così facendo dà forma a un saggio visivo che rivela un’autentica passione per il cinema e per come la sua storia, anche una minima parte di essa, si possa riportare alla luce e ri-inciderla dandole nuove forme di comunicazione.
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