Il 5 ottobre 2017 nell’edizione online del «New Yorker» la storica Ruth Ben-Ghiat domandava polemicamente perché in Italia le tracce monumentali del regime di Mussolini fossero ancora così numerose. Già da tempo divampava il dibattito internazionale attorno agli attacchi alle statue dedicate a personalità simboliche del colonialismo e del razzismo. Nel 2020 le proteste suscitate dall’assassinio di George Floyd hanno alimentato il confronto tra le istanze di cancellazione e quelle della «risignificazione» di determinati manufatti. Si inserisce in modo originale in questa discussione I luoghi del fascismo. Memoria, politica, rimozione, curato da Giulia Albanese e Lucia Ceci e pubblicato nella collana dell’Istituto nazionale Ferruccio Parri (Viella, pp. 356, euro 32). Il volume collettaneo è scaturito dal progetto di mappatura dei luoghi «oggetto di commemorazione più o meno consapevole del fascismo» che ha portato alla realizzazione della piattaforma www.luoghifascismo.it. I diversi contributi, a partire da quello di Paolo Nicoloso, prendono le mosse dalla missione che Mussolini assegnava all’architettura e all’arte, chiamate a tratteggiare i caratteri della rivoluzione fascista.

IL 25 LUGLIO 1943 si scatenava la prima furia iconoclasta a cui seguirà quella del post-25 aprile 1945. Tuttavia, dopo la liberazione si optava per il riutilizzo di spazi e strutture risparmiate dalla guerra, spesso con interventi minimi di pulizia dei simboli fascisti, talvolta procedendo al completamento dei progetti iniziati nel ventennio. A Roma sono celebri i casi dell’Eur e di via della Conciliazione, entrambi affidati a Marcello Piacentini, che era stato «l’interprete più fedele della nuova Roma mussoliniana». Sono esemplari le vicende della sede della Fao (pensata negli anni Trenta come ministero dell’Africa italiana) e la tormentata storia post-bellica di via dei Fori imperiali, di cui scrive Giorgio Lucaroni.

Ci sono poi aspetti dell’eredità materiale di epoca fascista che sfuggivano ai criteri di necessità. È questo il caso del grande obelisco al Foro Italico o dell’enorme affresco di Luigi Montanarini nella sede del Comitato olimpico nazionale. Albanese dedica attenzione all’odonomastica repubblicana, segnalando la permanenza di strade intitolate a figure variamente legate al regime. Molto interessanti sono poi le osservazioni critiche sulla memoria coloniale e su quella militare, che furono considerate separabili da quella fascista e quindi replicabili. A questo proposito, diversi saggi mettono in luce il passaggio degli anni Ottanta, quando a prevalere sono state le retoriche della conservazione (e della normalizzazione) della memoria del fascismo con l’apporto decisivo delle leggi per la tutela dei beni culturali. Carmen Belmonte ricostruisce la storia di alcune mostre organizzate tra il 1982 e il 1985 inserendole nel quadro della crisi del paradigma antifascista. Altri contributi, centrati su contesti provinciali, prendono invece in esame la politica della memoria post-fascista e la mettono in relazione con le ambiguità delle amministrazioni democratiche.

UNA PROSPETTIVA ORIGINALE viene dal saggio di Andrea Martini, che propone una disamina sul culto dei caduti, in particolare della Rsi. Vengono studiati gli atteggiamenti dei prefetti e le progressive aperture della legislazione per le sepolture in apposite aree da tutelare. Il 1950, anno del giubileo, fu un momento di passaggio in cui la crociata anticomunista della Chiesa trovava nella pacificazione una piattaforma su cui convergevano clerico-fascisti e anti-antifascisti. Su questo punto le nuove carte provenienti dall’Archivio Apostolico Vaticano potranno permettere nuovi sviluppi. Per esempio, sul ruolo giocato da un’istituzione, ancora poco nota, come la Pontificia commissione di assistenza, regista di una politica monumentale della riconciliazione di cui è testimonianza il complesso monumentale dell’Ara pacis mundi di Medea nel goriziano, eretto nel 1951 per celebrare tutti i caduti della guerra. Del resto, spinte di questo tipo erano già presenti, anche a livello europeo, tra i cattolici impegnati nel fronte resistenziale. Militanti che avevano scelto di intitolare le proprie formazioni a Damiano Chiesa, Guido Negri e altre figure eroiche della Prima guerra mondiale iscritte nella tradizione nazionalista che era stata fatta propria dal fascismo. Nel frangente post-bellico, in cui la dimensione della carità, del rifiuto della guerra civile si sovrapponeva alle prime istanze revisionistiche, si ponevano le basi di una memoria grigia della guerra e del ventennio che l’aveva preceduta.