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Architetto di carta, predilige l’argilla: Brodsky

Architetto di carta, predilige l’argilla: BrodskyAlexander Brodsky, "Profondità di campo", Roma, MACRO, foto Michela Pedranti, DSL Studio

A Roma, MACRO, "Profondità di campo" Per sfuggire alla condanna delle "brezhnevka", il russo Alexander Brodsky si volle utopista: ha finito col disegnare un coacervo brulicante di forme, e città, eventuali...

Pubblicato 9 mesi faEdizione del 31 dicembre 2023

Tra gli architetti vi è una specie più nobile, o più deleteria secondo alcuni punti di vista, che è quella degli utopisti. Eternamente sospesi fra ideale e realtà, fra pensiero e realizzazione, quasi sempre tali architetti si son dovuti accontentare di vedere le loro creazioni rimanere sulla carta. È a questa genia che appartiene Alexander Brodsky, architetto russo reinventatosi artista proprio per seguire la sua indole di utopista.
Insofferente ai legacci degli studi di architettura sovietici, in un periodo in cui la creatività di legioni di progettisti era, al massimo, impegnata nel disegnare monotone file di brežhnevka, i condomini popolari costruiti con pannelli di cemento tipici dell’era Brežnev, Brodsky finì per esprimersi prevalentemente attraverso incisioni e disegni, diventando di fatto un architetto di carta. Da insulto sbeffeggiante con cui gli architetti usavano etichettare i colleghi troppo idealisti e non capaci di trasformare le loro idee in edifici concreti, architetti di carta diventò invece per il nostro, e per Ilya Utkin insieme a lui, una sorta di dichiarazione programmatica di protesta e libertà con cui iniziò a partecipare, più o meno illegalmente, a numerosi premi e rassegne di architettura internazionali.
Accomunati da un certo spirito di ribellione verso quella macchina assurda e alienante in cui andavano tramutandosi le metropoli in era moderna, potremmo dire precursori di Brodsky alcuni architetti come Ledoux, Piranesi, o anche più di recente i radicali Archigram, Archizoom, Superstudio etc., che anche potrebbero rientrare tra gli architetti di carta. Come la loro, anche la ricerca di Brodsky, dunque, ci parla di un modo più poetico di pensare l’architettura e lo spazio, svincolato dalle preoccupazioni pratiche, visionario, forse romantico. E questo tenta di mostrarci la prima retrospettiva italiana dedicata all’artista russo (se escludiamo le sue partecipazioni alle Biennali di Architettura di Venezia del 2006 e del 2016), allestita al MACRO sino al 18 febbraio e intitolata Profondità di campo.
Ad accogliere il visitatore è l’acquaforte di un paio di improbabili occhiali, Spectacles (2021), apparentemente tratti da un’immaginaria e antica enciclopedia dell’assurdo, e libera ibridazione di elemento architettonico e occhiale. I grandi disegni a penna e le acqueforti esposti, e realizzati nel corso dell’ultimo ventennio, presentano piante di edifici immaginari, brulichii di forme indistinguibili, ma anche studi di forme perfette, come l’uovo, e di loro fantasiose declinazioni evolutive.
Colpisce poi per imponenza un monumentale, lungo disegno ritraente un paesaggio urbano e industriale, irreale, quasi fuligginoso per quella sporcizia del segno così sprezzantemente coltivata, e attraversato da figure fantastiche continuamente oscillanti tra immaginario geometrico non euclideo e forma antropomorfa, talvolta irriverentemente evocative di arcaismi egizi o sumeri. Si tratta di Clay City, opera complementare al plastico in argilla di una città ideale immaginaria, ricostruita dall’artista nel cortile della Amsterdamse Hogeschool voor de Kunsten, durante una residenza nel 2019, basandosi su ricordi di edifici visti, studiati, o vissuti affettivamente. Il plastico allora finì per consumarsi sotto i colpi dell’inverno olandese, mentre il disegno è rimasto a suggerire forse una rilettura dei rapporti tra idea disegnata su carta e realizzazione materiale.
Le opere sono inserite in un’installazione ambientale concepita appositamente dall’artista durante la permanenza a Roma: la parvenza è quella di un qualche laboratorio clandestino di archeologia immaginaria. Quasi allusione a quella esistenza compartita per celle tipica delle grandi distopie, lo spazio centrale è scandito da tredici piccoli tavolini identici, ciascuno con la sua lampada, su cui sono stipate infinite piccole sculture di argilla cruda, reperti, bozzetti di edifici moderni e arcaici, di rovine, di tavolette inscritte di caratteri cuneiformi, di catene evolutive impossibili di figure architettoniche e biologiche – si veda la forma di pesce gradualmente mutata proprio negli occhiali dell’incisione di apertura.
È evidente che l’argilla, da molti anni tra i materiali prediletti dell’artista, funzioni come un equivalente del disegno quanto al palesarsi, nella creazione delle forme e dello spazio, di possibilità inventive inattese, originate dal caso o dall’inconscio o dalla sfocatura di un ricordo. E questo furore tassonomico ci introduce al centro del cantiere di una città invisibile calviniana, immaginaria e immaginata scomponendo il lessico storico dell’architettura, e ricombinandolo in un vocabolario completamente nuovo e personale, pronto a raccontare il non realizzato di infinite possibilità. Anche nel lavoro di Brodsky si avverte una qualche vicinanza tra città e sogno, come appunto nelle Città invisibili di Calvino, dove Marco Polo spiega al Kublai Khan che «le città come i sogni sono costruite di desideri e di paure, anche se il filo del loro discorso è segreto, le loro regole assurde, le prospettive ingannevoli, e ogni cosa ne nasconde un’altra».
La compartizione per cubicoli ritorna anche nell’organizzazione dello spazio verticale, costruito attraverso finestre composte di cassetti di plexiglas trasparenti impilati, di cui alcuni contengono oggetti e materiali di recupero, ciotole, piedi di manichino, frammenti non meglio identificati. L’allusione è a un fare accumulatorio e archiviale, da un lato non estraneo a Brodsky, che spesso ha utilizzato materiali di riciclo, dall’altro riferimento alla prassi di archeologi e geologi. E non stupirebbe se l’aria archeologizzante di quest’opera ambientale fosse stata suggerita proprio da una riflessione sulla città di Roma che, non dimentichiamolo, già Freud volle utilizzare come metafora di «un’entità psichica dal passato similmente lungo e ricco», entrambe costruite su stratificazioni e stratificazioni di architetture l’una, di eventi l’altra.
In questa moltitudine di forme possibili, immaginabili, sembra volerci suggerire Brodsky, la «profondità di campo» del titolo della mostra – quella che, in fotografia, è lo spazio intercorrente tra i due punti più vicino e più lontano nitidamente messi a fuoco – è anche un paradigma atto a riscrivere la narrazione, scegliendo il rapporto tra sfondo e soggetto e, in sostanza, come definire la nostra visione del mondo e della storia. D’altra parte è nella lente con cui vediamo il mondo che si risolve la complementarietà tra spettatore e spettacolo.

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