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Arcangelo Mazzoleni, la texture dell’inconscio

Arcangelo Mazzoleni, la texture dell’inconscio

Intervista Alla Mostra del cinema di Pesaro un focus sul regista sperimentale: che qui racconta il suo lavoro

Pubblicato 4 mesi faEdizione del 8 giugno 2024

C’è sicuramente un’ascendenza filosofico-letteraria del cinema di Arcangelo Mazzoleni (da de Nerval a Rimbaud, da Goll a Blake, da Freud a Merleau-Ponty), e poi c’è un rimando importante e inevitabile alla stagione dell’avanguardia storica e alla cultura iconografica surrealista. Ma ciò che più colpisce nel vedere e rivedere i suoi cortometraggi – realizzati nell’arco di un trentennio (1978-2009) – è la capacità di costruire una affascinante e articolata esplorazione dei nostri stati (e strati) interiori. Non è un caso che uno dei suoi primi film si intitoli proprio Lo spazio interiore, sottolineando così quanto sia abitabile e percorribile in termini quasi fisici questo luogo, tanto invisibile eppure materializzabile in forma di indizi, frammenti, engrammi, lampeggiamenti.

Viste soprattutto nel panorama italiano degli anni ’80-’90, le escursioni filmiche di Mazzoleni sono piuttosto singolari e isolate, se pensiamo che il cinema sperimentale e d’artista (fatta eccezione per Gioli e pochi altri) si era ormai esaurito alla fine degli anni ’70, in coincidenza con la diffusione dell’immagine elettronica. E, proprio per questo motivo, lette come un «colpo di coda» dell’underground in pellicola, come un fertile anacronismo, risultano sorprendenti.

Visionario, psichedelico, in molti punti totalmente astratto, il cinema di Mazzoleni è, dunque, un viaggio dentro l’inconscio più profondo, da cui ricavare immagini che si ripropongono ossessivamente, che trasmigrano da un film all’altro accompagnate in alcune occasioni da un tessuto sonoro minimalista che ne sottolinea ancor più la struttura seriale. Del resto lo stesso binomio frequenze/sequenze evocato nel titolo di una sua opera filmica (Composizione per sequenze e frequenze, 1978), allude sia alla composizione musicale che a quella cinematografica. «Nel Ritmo vi è affinità con la musica, per cui fare fotografie o film vale per me a creare delle partiture visive», ha scritto Mazzoleni.

La scelta del formato in questa ricerca che si è sempre svolta sul versante dell’immagine fotografica e di quella in movimento, non è certo secondaria. Il Super 8, infatti, è un supporto difficile, «povero», a bassa definizione che, tuttavia, grazie all’abilità alchemica dell’artista catanese (ma romano di adozione) e alla sua capacità di plasmarlo e trasformarlo, diventa materia «nobile», con un livello invidiabile di perfezione, eleganza e risoluzione. Non solo per i riferimenti continui al mito e al rito, ma anche dal punto di vista stilistico, i film di Mazzoleni per certi versi ricordano quelli di Klonaris e Thomadaki, due artiste-cineaste sperimentali che hanno utilizzato al meglio il Super 8. Un altro filmmaker underground – almeno dal punto di vista cromatico – che resta un punto di riferimento per Mazzoleni è Kenneth Anger.

Ma la volontà di trasmutazione alchemica dell’artista si manifesta anche nel trasferire al linguaggio filmico-fotografico – come suggerito dallo stesso cineasta – figure retorico-espressive proprie della poesia: metafore, sineddochi, similitudini, climax e anticlimax, iterazioni e amplificazioni.
Cercare nell’immaginario di Mazzoleni echi del presente sembra difficile, poiché si ha l’impressione che il suo cinema sia tutto compreso tra il passato mitico-ancestrale e fuggevoli tracce mnestiche, eppure se partiamo da uno dei suoi film più figurativi e perfino narrativi, Le Temps des assassins (1986), siamo tentati – al di là del rimando alla setta religiosa degli Haschischins, che compivano omicidi sotto effetto della droga – di leggervi un’allusione alla lotta armata: la donna che guida con una pistola sul cruscotto dell’auto, i motociclisti, gli uomini che si allenano al poligono di tiro filmati con il videotape (le immagini «rubate» dai monitor ricorrono altre volte nel cinema dell’artista), sono tutti elementi della «realtà» o di una trama pseudo-diegetica, all’interno della quale irrompono continuamente interferenze elettriche. Il risultato è l’instaurazione di una dimensione sospesa tra classicità (le colonne di un tempio) e modernità (le antenne televisive), civiltà e natura.

Anche in Aurélia e in Anabasi (realizzati tra il’79 e l’81) ci sono frammenti di una possibile narrazione; per esempio – tra le immagini ricorrenti – il classico topos del cinema thriller-horror, con la soggettiva di qualcuno che si avvicina a una maniglia per aprire la porta. Questo stereotipo lo avevamo già visto ne Lo spazio interiore, ma in Aurélia diventa ancora più esplicito, c’è un coltello e perfino una testa di bambola che penzola, oltre all’ombra di un volatile di cui abbiamo seguito il volo (tema rintracciabile anche ne Lo spazio interiore) frammentario e confuso nella sequenza iniziale. Però, all’improvviso, ecco un inserto di tutt’altro tipo: le immagini di Julian Beck e del Living Theatre filmati durante una performance. Anabasi è invece introdotto dalla citazione di Freud – «Il pensiero non è altro che il surrogato del desiderio allucinatorio» – che non lascia dubbi sul fatto che le visioni su cui Mazzoleni costruisce questo (ma anche altri) film, siano libere associazioni/ossessioni che, di volta in volta, trovano una differente collocazione nella concatenazione di eventi.

Il sogno, del resto, viene evocato in modo piuttosto evidente mostrandoci una donna in stato di dormiveglia, mentre attraverso dissolvenze ottenute con esposizioni multiple, affiorano immagini molto astratte con veli, tessuti, gioielli, monili, filamenti luminosi. Immagini a ritmo lento dove campeggiano il rosso, il verde e il blu. Un candelabro, foglie secche, una piuma: oggetti simbolico-rituali, ma poi ecco che – varcata la stessa porta vista in Aurélia – tutto cambia e ritorna il clima da horror, con un frutto tagliato dal coltello, volto di donna urlante e anche l’inserimento dello stesso Mazzoleni che filma il suo volto in modo ravvicinato mentre corre nella campagna. Anche in Da corpo a cosmo e nel più recente Opus Mandala ritorna il «self-portrait» dell’artista in funzione meta-filmica. L’epigrafe finale di Anabasi desunta da Eraclito non sembra lasciare dubbi rispetto all’impossibilità di mappare il territorio onirico: «Per quanto tu possa camminare verso i confini dell’anima, non li potrai mai raggiungere, tanto vasta è la sua ragione».
Film della maturità, in cui fa confluire una serie di temi e suggestioni, portando ai massimi livelli la sua poetica e la sua estetica, è Da corpo a cosmo. Il cortometraggio nasce parallelamente alla sua personale romana allestita presso la Calcografia nazionale e origina una serie di grandi cibachrome.

Due sono le tecniche che scandiscono il cortometraggio: il time-lapse con cui Mazzoleni riprende il cielo nuvoloso che incombe su Catania, dominata dall’Etna innevato; le composizioni fotografiche riprese in truka che creano una dialettica tra immagini fisse/in movimento, trasformando queste coloratissime visioni/scansioni in astrazioni che ricordano a tratti le opere del primo futurismo di Balla, Carrà e Boccioni. A unificare il tutto la musica minimalista ossessiva e ipnotica che marca ritmicamente il susseguirsi di maschere, volti, corpi, foglie, alberi, vetrate di chiesa, rifrazioni luminose in interni domestici. Viene concepito per la mostra Il mondo al fuoco dello sguardo anche il successivo Mandala Opus #7 che, inglobando alcune sequenze di Da corpo a cosmo più altre immagini, come quella ricorrente dell’occhio (rimando a uno dei simboli-chiave del cinema dell’avanguardia storica), prosegue il discorso sulla relazione uomo-natura-cosmo.

A distanza di un ventennio l’artista ritorna alle sperimentazioni filmiche con Sole nero, un’opera dal significato fortemente alchemico che – in alcuni momenti – ricorda la cinepittura di Brakhage e, soprattutto, Allegoria della luce e dell’ombra, cortometraggio che porta a compimento l’utilizzo della truka fotografica creando raffinatissime astrazioni su oggetti scultorei, tra cui un teschio (il rimando all’iconografia della vanitas), e riprendendo nuovamente il tema del mandala al centro del film precedente. L’epigrafe di Blake alla fine del film, «Se le porte della percezione fossero aperte, ogni cosa apparirebbe come realmente è: praticamente infinita», suggella questo ennesimo e – almeno per il momento – ultimo viaggio di Mazzoleni nel mondo delle immagini interiori, nel tentativo di restituirci in tutta la sua misteriosa bellezza la texture dell’inconscio.

Da cosa nasce la scelta di adoperare costantemente il Super 8 per i tuoi film sperimentali, pur avendo avuto una formazione con formati professionali?
Al Centro Sperimentale lavoravo col 35mm o con l’Arriflex 16mm ma avevo già scoperto le versatili cineprese Super 8 mm, come la Beaulieu, che consentivano di riavvolgere la pellicola dentro la mdp e di effettuare dissolvenze incrociate e sovrimpressioni multiple, nonché di riprendere frame-by-frame in animazione o di filmare i corpi in movimento con la tecnica della pixillation. Inoltre la loro leggerezza consentiva movimenti di travelling e riprese a mano di grande facilità. Questo modo di procedere era come tornare all’infanzia creativa, magica e primordiale del cinema. Nasceva così un rapporto simbiotico fra me e la mdp, che diventava un’estensione del mio corpo, un iper-occhio aperto sul mondo.

Come mai hai realizzato così pochi film nell’arco di 35 anni?
Non ho mai avuto l’esigenza di produrre più film in quanto la mia soddisfazione è consistita nella continua sperimentazione, nella volontà di spostare sempre un po’ più in alto l’asticella, quindi con l’atteggiamento dell’artista sperimentatore che non mira tanto a un prodotto quanto alla qualità della ricerca e alle scoperte che essa comporta, ai nuovi linguaggi che si possono prefigurare: l’illuminazione che presiede alla costruzione del film. Io compongo «partiture visive» in cui nuclei di fotogrammi s’alternano, si contrappongono, si ripetono con la tecnica della variatio ripresentandosi in sempre nuove associazioni. Un lavoro di «composizione», quindi, simile a quello del musicista che lavora sul Tempo, e che richiede concentrazione e adesione intima a un progetto che spesso è presente, ma solo come «musica interiore», e aspetta di essere sviluppato in immagini, organizzate secondo il ritmo di una metrica, basata su pause, riprese, accelerazioni, variazioni.

Il tuo cinema può essere visto e letto come un continuum, soprattutto perché vi sono immagini ricorrenti e temi costanti, oltre che suggestioni e referenti ben precisi, legati alla storia delle arti e della letteratura. Qual è il tuo punto di partenza culturale e l’elemento unificatore?
L’essere stato sin da piccolo circondato dall’attenzione di una miriade di donne (nonne, zie, amiche delle zie, governanti…) ha sicuramente influenzato la mia visione, puntata sulla narrazione del Femminino. Poi, il mio è anche un cinema di luoghi che, interiorizzati, diventano spazi dell’anima: le grandi stanze della casa di famiglia di Catania dove ho elaborato gioie e lutti sono divenute setting del mio mondo poetico, con gli alti soffitti affrescati, gli anditi bui, i lunghi corridoi, i cortili inondati dalla luce siciliana negli interminabili pomeriggi estivi… O la vigna alle pendici dell’Etna dove ho ambientato Anabasi, nel giardino della mia casa di campagna dove mi piaceva sperdermi… Luoghi dell’infanzia, quotidiani, consueti, familiari che però, secondo la visione freudiana dell’unheimlich, diventano all’improvviso estranei e spaventosi: perturbanti. Occorre poi aggiungere che l’essermi formato nei Sessanta-Settanta ha significato aver vissuto ideologicamente gli anni della Contestazione, portandomi a concepire l’arte quale strumento di demistificazione e di cambiamento della realtà, come nella messinscena di Diktat, Il Tempo del Titano, uno spettacolo multimediale su una dittatura in cui, sull’esempio di Svoboda, utilizzavo il cinema per sperimentare l’innesto fra i corpi fisici sulla scena e le immagini immateriali e visionarie delle proiezioni.

Mi sembra difficile slegare il tuo immaginario filmico da quello fotografico dal momento che li fai interagire perfettamente, unificandoli attraverso una sensibilità fortemente pittorica.
In effetti c’è per me una complementarità molto forte fra i due linguaggi. L’esplorazione delle potenzialità del linguaggio fotografico (in particolare gli studi sul corpo e la sua interazione col colore; la frammentazione e la moltiplicazione dell’immagine; la sua dislocazione su diversi piani spaziali…) ha dato nuova linfa alla ricerca filmica, che si è nutrita delle «scoperte» e sperimentazioni, sul piano cromatico e figurativo, compiute in fotografia. D’altra parte la relazione è stata di reciproca influenza in quanto che il cinema mi ha portato naturalmente verso un «gigantismo» delle immagini fotografiche: Cibachrome, riunite in polittici di grandi dimensioni che, come nel caso della mostra personale presso la Calcografia Nazionale del ‘94, si espandevano su tutte le pareti delle sale, mentre gli schermi trasmettevano le stesse immagini, dinamizzate e svolte nella temporalità. Vi era poi un ulteriore livello, costituito dai molteplici disegni e story-board che mostravano il lavoro germinale, le prime intuizioni di questa ricerca: l’idea fermata per la prima volta su carta e pronta a diventare immagine, fissa o svolta nel Tempo. Col lavoro foto-cinematografico di questa mostra ho portato ad espressione il mio progetto di «dipingere con la Luce»…

Nel vedere i tuoi film si colgono rimandi che vanno dall’avanguardia storica all’underground soprattutto statunitense, ma ci sono altri autori e opere del cinema sperimentale che hanno influenzato il tuo lavoro?
Quando frequentavo il CSC ebbi modo di conoscere Peter Kubelka, ex allievo del Centro che, un giorno venuto in visita, proiettò i suoi film sperimentali. La sua idea di cinema metrico s’incontrava colla mia visione del cinema che, più che narrare, mira a rappresentare il teatro della coscienza, i processi mnestici, le improvvise illuminazioni, le epifanie: uno stream of consciousness, una sorta di monologo interiore joyciano dove dominante sia la ricerca dell’Altro. Certo, ho avuto poi altri autori sperimentali di riferimento, come Brakhage, Anger e Carmelo Bene, per l’uso del colore, e cineasti i quali, pur lavorando nel circuito mainstream, cercavano di innovare conducendo il proprio discorso autoriale. E citerei Pasolini e il suo «cinema di poesia», Godard o lo Jodorowski che con El topo e La montagna sacra precorreva di mezzo secolo l’odierna ondata distopica e immaginifica.

Attualmente stai lavorando a un nuovo film o comunque a un progetto legato di carattere artistico?
Sto pensando ad un film in 35 mm che inglobi sequenze girate in Super 8: le immagini in 35 mm rappresentano il piano del reale fisico, mentre quelle in Super 8 l’infinito spazio interiore. Poi c’è il progetto di una mostra, che in parte riprende e ricontestualizza il lavoro di ricerca fin qui svolto, in parte propone nuove suite di immagini: fotogrammi ingranditi e concepiti come singole opere d’arte. E c’è la pubblicazione di un’autofiction, in cui racconto gli anni della mia formazione d’artista: un viaggio nella memoria verso le terre favolose dell’infanzia e giovinezza, che diventa però anche un viaggio nel «cuore di tenebra» del Novecento. Parte dei brani narrativi dell’autofiction, registrati, entreranno, come istallazione sonora, nella mostra, dialogando con le immagini fotografiche, i film e i testi in esposizione. Insomma, per me tutto il lavoro di ricerca è come un grande repertorio potenziale di immagini, miti, universi narrativi in espansione che siano in grado di contrapporsi all’immaginario standardizzato del mondo globale.

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