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Arcangela, storia di una barca

Arcangela, storia di una barcaArcangela, progettata da Enzo Braucci – Florencia Grisanti

Il racconto «È stata progettata da mio fratello Enzo per affrontare mari in tempesta, diceva che assomigliava a quella di Braccio di Ferro, servirà per progetti sociali. Nel Sud esistono valori che saprebbero fare una rivoluzione ma la classe dirigente è un triste naufragio»

Pubblicato circa un anno faEdizione del 29 luglio 2023

Mio fratello Enzo è stato uno dei tanti uomini del Sud pieni di ingegno ma che non hanno mai trovato supporto in un Meridione che non riesce a cambiare. Questa non è un’apologia ma un racconto, che vorrebbe servire a renderci conto che quell’arte di arrangiarsi, tanto decantata a Napoli, è ormai diventata una maledizione per chi la esercita. Enzo era stato un operaio dell’Alfasud di Pomigliano (poi Alfa Romeo), che aveva accettato la cassa integrazione quando nei primi anni ’80 c’era stata la ristrutturazione aziendale, pochi anni dopo aveva firmato le dimissioni e con i soldi del trattamento di fine rapporto aveva messo su un’attività imprenditoriale nel campo aeronautico. Fin dalla giovinezza, terzo di sette figli di una famiglia proletaria, era stato un autodidatta, prima la passione per le moto che lo aveva portato a viaggiare in mezza Europa, raggiungendo Capo Nord, poi la navigazione a vela che lo aveva fatto diventare uno skipper esperto e infine il volo.

AVEVA INIZIATO come paracadutista, trasmettendo questa passione anche ad altri suoi due fratelli (uno ero io), per poi passare a prendere l’abilitazione come pilota di piccoli aerei, specializzandosi negli ultraleggeri. Dalla sua carriera come operaio metalmeccanico si era portato dietro una grande capacità manuale, prima con i motori e poi con la lavorazione della resina epossidica, quei materiali compositi utilizzati per auto, aerei e barche. Con pochi soldi e grande lavoro, era stato capace di costruire un piccolo aeroplano anfibio su cui aveva brevettato un particolare dispositivo di interscambio tra ruote e galleggianti, lo aveva dedicato alla memoria di Angelo D’Arrigo, lo strepitoso aviatore catanese morto nel 2006 in un incidente aereo. In pratica non erano le ruote che si ritraevano ma i galleggianti che scendevano in posizione per l’ammaraggio, un sistema semplice che riduceva di gran lunga i rischi di malfunzionamento durante questa delicata manovra.

AVEVA SPESO ANNI per cercare di promuovere questa sua invenzione, senza capitali e capacità manageriale, partecipando a fiere e poi mettendo on line dei filmati, ma senza nessun risultato, anche se specie dall’estero gli veniva grande interesse. Inutile rivolgersi a banche o a imprenditori per commercializzarlo, il sud in questo è un cimitero abitato solo dai suoi guardiani di clientele e lobbies, impossibile per lui che era uno spirito libero. Deluso ma non sconfitto, aveva deciso di utilizzare le sue capacità per aprire una ditta che costruiva galleggianti per aeroplani, si era spostato per questo da Napoli nella provincia di Benevento, a Faicchio, ed era riuscito a coprire l’indotto di una importante azienda aeronautica del posto che però un bel giorno aveva deciso di produrre in proprio quei componenti.

SENZA SOSTEGNO finanziario, in un territorio privo di manodopera qualificata e dominato dal clientelismo politico, finì sul lastrico e dichiarò fallimento, sopravviveva come skipper o istruttore di volo o di paracadutismo, a sessant’anni si sentiva un fallito di talento. Ma non voleva rinunciare e si era messo a progettare un natante a motore, dal design innovativo, sul modello di quelli che navigano nei fiordi scandinavi, capaci di affrontare il mare in condizioni di grande turbolenza. Ne aveva realizzato un prototipo, con le sue sole mani e con l’aiuto di qualche amico che riparava motori automobilistici lì in campagna, diceva della barca che rassomigliava a quella di Braccio di Ferro.

LUNGA QUASI 8 METRI, era riuscito a venderla e con parte dei soldi ricavati, aveva finanziato la progettazione di un secondo modello, migliorandolo e potenziandolo, ci aveva aggiunto una cabina e un bagno sottocoperta. Realizzò lo stampo in vetroresina, la costruzione andava a rilento perché i soldi finirono e le energie scarseggiavano, inutile la ricerca di sostenitori e finanziatori, Enzo riusciva a vivere grazie al reddito di cittadinanza che integrava la pensione minima sociale. Una domenica di giugno del 2020, mentre volava sul suo ultraleggero (ormai un sogno svanito che lui si ostinava a tenere in vita) mio fratello accusò un malore, riuscì a effettuare comunque l’atterraggio ma l’aeroplano capitombolò e lui ne uscì con delle gravissime lesioni al midollo spinale.

ERA IL TEMPO DEL COVID e gli ospedali erano inaccessibili ai familiari, riuscivamo a comunicare con lui solo attraverso un sistema sperimentale di telefonino agganciato a un collare per i selfie e a una matita che teneva in bocca per avviare le chiamate, lui che aveva perso del tutto il controllo del corpo e degli arti e si chiedeva «chissà se potrò mai più suonare la chitarra». Dopo sei mesi di ricovero mio fratello improvvisamente si aggravò, io ero a Parigi da due giorni per lavoro e dovetti fare un avventuroso e veloce ritorno in Italia a causa delle restrizioni sanitarie. Riuscii a vederlo quando ormai era in coma e a sussurrargli all’orecchio, durante l’estremo saluto, che mi facevo carico di quello che lui, durante il ricovero, aveva espresso come continuo e ripetuto desiderio: finire la barca. Morì poche ore dopo, a 72 anni, nel giorno del mio compleanno, lo aveva stroncato una setticemia e l’impasse del corpo medico per il Covid. Lo scafo della barca era rimasto in un capannone di campagna, la proprietaria mi supplicava di liberarglielo e di pagare gli affitti arretrati.

DI NAUTICA ne capivo pochissimo, cominciai una ricerca di chi potesse continuare e finire la barca, alcuni amici mi davano consigli ma scoprii presto che era come andare in giro a chiedere di riparare il collo spezzato di una gallina: nessuno voleva farsi carico dell’impresa. Per fortuna, guidato da una conoscente poi diventata amica, dopo alcuni mesi trovai a Torre del Greco un carpentiere navale, Peppe Luppi accettò la sfida. All’inizio storse il naso, la barca era strana, con una cabina che sembrava più adatta alla pesca che al diporto, gli chiesi si rispettare il progetto e così è stato. Lavorando nel cantiere Porto Salvo di Torre Annunziata, Peppe radunò intorno a sé una piccola squadra di tecnici, tutti si appassionarono a quello strano progetto e alla mia promessa di terminarlo. Ci sono voluti tre anni, piccole modifiche al progetto iniziale e quel senso di accoglienza e di sana follia che solo le comunità del sud sanno dare, ma l’otto luglio di quest’anno la barca è stata messa in mare.

L’HO CHIAMATA ARCANGELA e ci ho fatto disegnare un dragone, la sfida è stata grande e impegnativa, chissà se a mio fratello sarebbe piaciuta così. Vorrei che questa storia ci facesse riflettere sul Sud e sui suoi talenti sempre in affanno, mentre i più furbi approfittano delle difficoltà della sua popolazione, esaltando l’arte di arrangiarsi per gli altri e quella dell’intrigo per sé. Chiaramente ho preso la patente nautica, entro le 12 miglia che spero non basteranno per poter navigare e realizzare dei progetti sociali con gli adolescenti, lungo quel mare che Enzo Braucci aveva ammirato tra le sue onde e le sue nuvole. Devo ringraziare Peppe Luppi e la sua squadra, il cantiere Porto Salvo e Torre del Greco e Torre Annunziata per la loro arte nautica. Quello che ricavo da questa esperienza lo aveva scritto Carlo Pisacane alla metà dell’800, che nel Sud esistono valori morali che saprebbero fare una rivoluzione. La sua classe politica e dirigente sono un triste naufragio, ma mio fratello Enzo ha creduto nel cambiamento, nonostante tutto, fino alla fine.

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