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Arbasino, il galateo narrativo non tollera i moti del cuore

Arbasino, il galateo narrativo non tollera  i moti del cuoreTano Festa, «Michelangelo according to Tano Festa», 1967

Grandi dialoghi/11 I dotti scambi di idee contenuti nelle conversazioni di un gruppo di giovani della cafè-society sono le sole avventure di «Fratelli d’Italia»

Pubblicato più di un anno faEdizione del 6 agosto 2023

Il romanzo «tradizionale» che racconta una storia «ben fatta» al passato remoto e in terza persona – dichiarava Alberto Arbasino al primo raduno del Gruppo 63 – sa «di cadavere». Il tentativo di rivitalizzare quell’organismo ormai in stato di decomposizione fu affidato innanzitutto a Fratelli d’Italia: un «romanzo-conversazione» dove la storia viene travolta dai discorsi di un gruppo di giovani della cafè-society impegnati a divertirsi in un singolare viaggio di apprendistato. I loro andirivieni attraverso l’Italia del boom economico, registrati al presente e in prima persona dalla voce del cosiddetto «Elefante», ci trasportano in un vortice di parties, pranzi e occasioni mondane che diventano quasi un pretesto per sfogare un’inusitata «smania di chiacchiere».

Due sono le principali tipologie di dialogo a cui Fratelli d’Italia ci invita ad assistere. A volte, nel corso di una première o di un ricevimento, un crocchio di interlocutori si riunisce per scatenarsi in una disinibita social comedy di pettegolezzi, che attraverso scambi di rapide battute accrescono la nostra curiosità per la fisionomia sociale o le bizzarre abitudini dei presenti in sala. In altre occasioni, e più spesso durante una cena «letteraria», un unico oratore sovrasta il cicaleccio collettivo lanciandosi in spettacolari esibizioni di «Kulturkritik», solo in parte interrotte dai commenti dei suoi ascoltatori. È il momento in cui la conversazione – come spiega Arbasino in Certi romanzi – si appresta a sceneggiare un succulento banchetto di «idee», legate al temperamento o alla professione di uno specifico portavoce.

Capita allora che Jean-Claude, romanziere dalla perenne luna storta, si lamenti per un intero capitolo dei limiti imposti dall’esistenzialismo francese, mentre il visionario compositore Klaus ci offre prelibate digressioni di pagine e pagine che possono riguardare tanto la dodecafonia di Schönberg e Webern, quanto i mirabolanti castelli di Ludwig di Baviera o la sociologia del gusto americano. E se lo sfacciato «Elefante» si dilunga a più riprese sulla fenomenologia della propria omosessualità marchettara prima di partecipare a una colazione di alti prelati che discutono di Fitzgerald, al giornalista-scrittore Andrea tocca invece il compito di affondare il coltello nel provincialismo e nell’arretratezza di orizzonti della letteratura italiana, povera di iniziative all’altezza del panorama internazionale.

È così che il romanzo sfrutta la conversazione per arrivare a parlarci di sé stesso e delle proprie aspirazioni. Fra i diversi progetti che Andrea stenta a realizzare, spicca infatti un’opera molto simile a quella che stiamo leggendo. Il libro a venire, che si dovrebbe per l’appunto intitolare Fratelli d’Italia, non si rifarà ai «cattivi maestri» di un’inesistente tradizione italiana, ma guarderà piuttosto alle sperimentazioni di romanzieri come Ivy Compton-Burnett, Thomas Mann, Musil e soprattutto Proust, che si sono serviti del dialogo per destrutturare la narrazione «dall’interno».

Non ci si deve tuttavia stupire se fra i possibili antecedenti del romanzo appaiono anche i Saturnali di Macrobio, nei quali si mangia e si conversa per giorni «con eguale ingordigia», fondendo «verve culinaria» e «mondanità erudita». L’arte della chiacchiera – torna a dirci Arbasino in Sessanta posizioni, richiamando gli studi di Frye e Bachtin – punta a far rivivere il potenziale eversivo dell’antica «satira menippea», che con i suoi discorsi sovraccarichi di erudizione e la commistione di registri narrativi era stata in grado di divorare le convenzionali barriere di genere. Anche per questo Arbasino amplifica a dismisura i colloqui di carattere saggistico, che vengono imbottiti con ogni mezzo fino a provocare un effetto di esplosiva saturazione.

Quando si lanciano nelle loro performance, gli interlocutori si dispongono a presentarci la realtà sotto forma di «elenchi agghiaccianti», destinati ad ammassare nella stessa battuta decine di nominativi. Gli interventi procedono per aggiunta di materiali, anche grazie all’uso dei tre puntini di sospensione che impediscono al ragionamento di placarsi e lasciano aperta la possibilità di ampliare l’inventario. Poco importa poi se la sintassi viene scardinata nei suoi snodi e appesantita fino all’inverosimile dall’irruzione delle citazioni, dei riferimenti e delle allusioni colte a un repertorio di testi sterminato. Chi parla non può fare a meno di trascinare nel discorso un’intera biblioteca di Babele, all’insegna di un enciclopedismo «à la diable», che ha in orrore qualsiasi chiusura e si ostina a catalogare sulla pagina le proposte culturali in uno «smodato accumulo di pasticceria». Col risultato che il lettore, se non arriva a sentirsi nauseato o sopraffatto dalla sua stessa ignoranza, finisce col percepire il vuoto nascosto sotto tanta abbondanza di pietanze.

Giunti al termine del romanzo, ci si accorge che la chiacchiera saggistica, con i suoi eccessi, ha tramutato i personaggi in piatti «atteggiamenti mentali» privi di identità. Ogni sentimentalismo autobiografico è stato messo al bando da galateo narrativo che non tollera di ascoltare i «moti del cuore» e tantomeno le struggenti rievocazioni della memoria intima. Anche il più piccolo residuo di «psicologia» si è così dissolto, fagocitato dall’ininterrotta «parlerie» intellettuale, mentre la trama degli eventi si è ridotta a un esile filo di pettegolezzi, che i lettori sono costretti a trangugiare in tutta fretta solo per approdare nel modo più rapido alle portate di critica.

Gli scambi di idee contenuti nelle conversazioni restano dunque le uniche «avventure» di Fratelli d’Italia. E tuttavia, se proviamo a ripercorrere il loro disordinato sviluppo, dovremo ammettere che le digressioni erudite si intralciano o si contraddicono da un capitolo all’altro, come se fossero progettate per costituire un coacervo labirintico, fitto di innumerevoli suggerimenti, ma incapace di condurci a una risoluzione decisiva. Troppo sconfinate risultano infatti le ambizioni dei partecipanti, che in più di un caso si perdono in sogni impossibili da realizzare, oppure sembrano voler trovare nella cultura un alibi a uno stato di impasse inventiva. La letteratura, nelle loro divagazioni, si prospetta come un’entità immensa, a tratti mostruosa, determinata più a intimidire che a incentivare l’estro della creazione.

Non è un caso se l’apprendistato degli accaniti conversatori si interrompe di punto in bianco, con una manciata di appunti teorici che ci rimandano alle discussioni sul romanzo intavolate all’inizio: «Si torna al punto di partenza – leggiamo nel finale – però mutati per sempre». Imprigionate in un circuito dove si può soltanto ricominciare a parlarsi addosso, le conversazioni di Fratelli d’Italia, in realtà, restano fini a sé stesse. A mutare davvero, al termine del viaggio, è la fisionomia del romanzo, ormai trasformato in una trappola di divertimenti senza vie di uscita.

 

Il dialogo
Da Alberto Arbasino, Fratelli d’Italia, Einaudi, 1976.

– … Saranno anche pregiudizi; ma il fatto stilistico si decide lì, nelle scelte negative.

– Anche minime! – fa Andrea. – Per esempio: stavolta, niente sconvenienze! Anche se tendo a «montare» la realtà viva in conversazione, in commedia, perché quando vuoi evitare la terza persona dei «pensò» e dei «credette», il dialogo o il teatrino esprimono meglio di qualunque altra forma il plot e insieme la sua «morale», cioè poi il tuo giudizio critico. Il «pranzo letterario», cioè quel pranzo dove si mangiano più libri che cibi, naturalmente ha una quantità di precedenti illustri, non solo Petronio e Cervantes e Proust e i ‘Saturnali’ di Macrobio e ‘Nightmare Abbey’… e chissà cosa saranno mai le ‘Notti romane’ di Alessandro Verri? E la biblioteca di Don Ferrante, non è anche un pranzo letterario, au fond? … è sempre stato il mio sogno più grande, pranzare con Don Ferrante e con Trimalcione insieme…

– Abitare invece quei mondi di totalità: Dante, Sade, Joyce… – sogna Federico. – Mi basterebbe anche una grande cucina, all’interno di un sommergibile con un pianoforte o un organo…

Klaus è allibito: – Diventerete come Lukács: trattati di narrativa come quei trattati d’aeronautica della fine Ottocento, dove ci sono dentro cose leonardesche, e qualche dirigibile. Sarebbe come se io mi fermassi a Pfitzner, scusatemi.

– … E pensare che mi credevo sempre un neo-illuminista in ritardo… – ribatte Andrea. – E infatti in questa congiuntura di boom e di benessere continuo a ostinarmi nel ragionamento del «come se». Cioè, per esempio: proviamo a comportarci «come se» vivessimo in una società civile avanzata, in un paese che va risolvendo i suoi vecchi problemi in maniere moderne e definitive, avendo a disposizione un linguaggio scioltissimo e disponibilissimo per qualunque esigenza up to date, in una cultura aggiornata e à la page senza aver perso il meglio della propria tradizione… cioè la letteratura latina, non già l’italiana, beninteso…

 

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