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Arabia Saudita, le musiche si infiammano

Arabia Saudita, le musiche si infiammanoIl rapper Don Legend The Kamelion

Storie/Cresce il numero di concerti e artisti, tra piccole aperture culturali e il caso Khashoggi Tollerati gli eventi privati. Per quelli pubblici c’è un’apposita Autorità. Occhio ai raduni segreti e al ciclone digitale

Pubblicato più di 5 anni faEdizione del 29 giugno 2019

Era il 1978, il mondo musicale era scosso dai fremiti del punk e della new wave, il pop stava vivendo la stagione della disco music. Ma in una parte del mondo in cui la musica rock era taboo, la band più in auge erano gli Starbuck. Un momento, gli Starbuck chi? Nati nel 1974 ad Atlanta, avevano avuto una sola modesta hit Moonlight Feels Right (1976), che aveva raggiunto la terza posizione nella classifica dei singoli Usa. Non esattamente delle star globali, ma comunque sufficientemente affermati da potersi garantire l’interesse della compagnia petrolifera nazionale dell’Arabia Saudita, la Aramco, che scritturò il gruppo per un tour nel paese culla dell’Islam, fino ad allora precluso al rock’n’roll.
DUE SETTIMANE
Lo sbarco degli Starbuck nel Regno, per quanto epocale, non fece grande clamore, la band tenne una serie di concerti in un periodo di due settimane davanti a un pubblico in gran parte composto da geologi e ingegneri stranieri, ma quei live rimangono un unicum. Un episodio riaffiorato grazie a una serie di post su Twitter da parte di un profilo (@desertlover79) che ripropone immagini vintage del paese. Vecchie foto, si è poi appreso, che erano state scattate dal chitarrista della band Darryl Kutz, prematuramente scomparso nel 1994 per un infarto, e rimesse in circolazione della figlia come tributo al padre. L’avventura degli Starbuck rimase però per anni un’eccezione.
L’Arabia Saudita ha sempre avuto un rapporto molto diffidente nei confronti della cultura occidentale. Solo negli ultimi tre anni si sono avute inedite aperture, per iniziativa del principe Mohammed bin Salman il cui spirito innovatore è stato però seriamente compromesso dall’omicidio del giornalista dissidente Jamal Khashoggi. Dopo anni di chiusura, in Arabia sono arrivati artisti come il musicista country Toby Keith e il rapper Nelly che hanno potuto tenere esibizioni davanti a un pubblico esclusivamente maschile e la cantante libanese Hiba Tawaji a cui è stato concesso di cantare davanti a una platea di sole donne (la prima esibizione pubblica di un’artista musicale femminile nel paese).
Dal dicembre scorso a febbraio a Tantora, nella regione di Al-Ula a 300 chilometri da Medina, si è tenuta una rassegna rivolta anche a un pubblico internazionale con esibizioni al confine tra la musica popolare, la classica e il folk con una line-up di artisti come Andrea Bocelli, Yanni o Lang Lang.
MEMORIE
Questa piccola rivoluzione culturale sta senza dubbio facendo riaffiorare anche memorie di un paese che il mondo identifica superficialmente solo per essere il paese della Mecca, del petrolio e di una delle declinazioni più rigide di islamismo.
Così come il tour dimenticato degli Starbuck, la giornalista Arwa Ider, irachena ma con un’adolescenza passata in Arabia Saudita, ha ricordato alla Bbc come nel Regno Wahabita, la musica avesse una vita clandestina e, appunto per questo, straordinariamente affascinante. Era una resistenza sotterranea, ha ricordato Arwa Ider, che viveva a Al-Khobar, una provincia nella zona orientale del paese: «Era l’autunno del 1988 io avevo 13 anni. Il mercato musicale era alimentato da piccoli negozi di cassette. Baracche senza insegna con pareti ricoperte di album di tutti i tipi e generi. Tutte copie pirata e bootleg che si dividevano tra ultime novità e titoli di catalogo. Io morivo dalla voglia di ascoltare l’ultimo album dei Pet Shop Boys. Nel primo negozio di questo tipo in cui entrai scelsi però un nastro degli Eurythmics e un bizzarro gruppo di disco-dance italiana, i Radiorama».
Il clima saudita era ostile alla musica non solo in senso figurato, ma letterale. Le temperature roventi del deserto non consentivano una lunga vita alle cassette che venivano quindi vendute in ingombranti custodie pensate per resistere anche alla canicola. Essendo copie pirata spesso erano riversate sulle classiche C90. Il nastro avanzato era riempito da improbabili bonus track o chicche che avrebbero fatto gola anche ai fan occidentali. Questi negozi completamente non ufficiali erano però ovunque, tacitamente tollerati anche perché rispettavano la chiusura all’ora della preghiera e perché all’interno la musica non veniva diffusa, non violando le rigide regole che imponevano di non diffondere in pubblico il pop.
UNA SCOPERTA
Il mercato sotterraneo, ha ricordato Arwa Ider, coinvolgeva anche le riviste. Testate inglesi come Smash Hits e New Musical Express arrivavano d’importazione e venivano pagate a peso d’oro, spesso però subivano una sommaria censura e molte pagine erano o strappate o cancellate a colpi di pennarello.
La scena carbonara creava eccitazione per ogni piccola scoperta, alimentata anche dalle radio internazionali che si captavano però solo in alcune aree del paese. Questo incubo censorio però, per fortuna, è solo un ricordo. Prima ancora della recente e fragile perestrojka religiosa di Mohammed bin Salman, l’Arabia Saudita è cambiata grazie a internet. Dal 2012 sono sbarcati alla fine anche i servizi di streaming che permettono l’accesso a tutti gli archivi musicali. Oggi nel paese l’industria musicale è sostanzialmente divisa in due settori. Il primo consiste in un circuito di cantanti solisti che si esibiscono principalmente a matrimoni e feste private e che pubblicano canzoni pop per le due principali etichette locali. In questo ambito ci sono anche diverse interpreti femminili, ma che il più delle volte usano pseudonimi o nascondono il proprio nome per il timore di rappresaglie. Poi c’è un circuito alternativo che vive di produzioni indipendenti diffuse in tutto il mondo arabo grazie al web e sul territorio con concerti non sempre ufficiali.
La sfida più grande è proprio quella di trovare posti dove organizzare spettacoli live. I leader religiosi ortodossi continuano a sostenere che i concerti pubblici siano pericolosi e immorali. Solo gli eventi tenuti in luoghi privati sono di fatto tollerati. Tuttavia dal 2016 il governo ha creato l’Autorità generale per l’intrattenimento e ha così iniziato a individuare locali e spazi in cui è permesso, dietro richiesta di autorizzazione, suonare pubblicamente musica dal vivo. Rimane però la rigida segregazione tra uomini e donne. L’attuale panorama musicale vede rock band ormai navigate come i Most of Us di Jeddah attivi dal 1998 che per anni hanno suonato in concerti clandestini. In onore del provvedimento che ha consentito alle donne saudite di guidare la macchina hanno pubblicato su Youtube una ironica cover di Born to Be Wild.
I Sound of Ruby sono un gruppo di noise rock che ricorda molto un incrocio tra Helmet e Primus, anche loro hanno iniziato negli anni ’90 esibendosi in tende nel deserto, lontano da occhi e orecchie indiscrete. Gli Al Namrood sono una band che fonde il folk arabo al black metal. Sono ben oltre la blasfemia per gli standard locali e nascondono le loro identità. «Nel corso degli anni abbiamo ottenuto diversi traguardi – hanno scritto sul loro profilo Facebook – il primo dei quali è tenere la testa attaccata al nostro corpo». La scena hip hop invece è dominata da Qusai Kheder che si esibisce con il nome d’arte Don Legend the Kamelion ed è diventato un star nel mondo arabo. Tutti questi artisti stanno beneficiando della nuova apertura del paese al mondo e alla cultura occidentale, se questa apertura sarà destinata a durare e a crescere non si sa, ma in Arabia Saudita più del 60% della popolazione ha meno di 30 anni, la richiesta di musica continua a crescere e, censura di regime o no, non potrà essere fermata.

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