Aprire ai nuovi Ogm nella ricerca in campo aperto, in assenza di alcun confine nei rapporti con le altre colture e utilizzando un emendamento in fase di conversione di un decreto legge, come è avvenuto in Italia qualche giorno fa, è difficile da mandar giù. Agire in questo modo, in contrasto con le norme europee, apre a una prospettiva poco rassicurante. Al di là di ogni commento politico, la verità è che non ne abbiamo bisogno. Lo diciamo da tempo, sosteniamo con forza l’inutilità di tanta tecnologia finalizzata a modificare la genetica, ad alterare la natura, solo per rafforzare un modello centrato sul profitto. Nascondersi, peraltro, dietro una narrativa che giustifica la scelta con l’esigenza di una maggiore sostenibilità per contrastare la crisi climatica, è un ulteriore esempio di come non si vuole affrontare davvero il problema mentre lo si cavalca.

È la strada sbagliata, continuiamo sempre con lo stesso errore di pensare che possiamo modificare la natura a nostro piacimento invece di pensare che è proprio la natura a offrirci possibili soluzioni. Ma di fronte a una crisi senza precedenti, come quella climatica, serve intervenire in modo concreto, senza se e senza ma. Ibridi commerciali, Ogm, e oggi i tanto sbandierati nuovi Ogm, sono passi diversi di un unico percorso verso la perdita della sovranità sui semi. Le conseguenze negative delle scelte fatte negli anni in termini di consumo di suolo, di acqua e di biodiversità sono tangibili. Per non parlare del dramma dal punto di vista sociale.

Creare le nuove varietà in laboratorio per renderle resistenti oggi a un fungo, domani a un insetto, dopodomani a una fisiopatia, diventa un modo per non affrontare a monte il problema che spesso è la causa primaria.

CAMBIARE PARADIGMA non è un’esigenza astratta, significa modificare ogni nostro comportamento adattandolo alla necessità di ridurre l’impatto. Non esiste una tecnologia buona e una cattiva. Il problema nasce dal modo in cui la si usa. Il miglioramento genetico delle specie vegetali è da sempre un’attività degli agricoltori. I cerealicoltori in ogni angolo del pianeta hanno sempre selezionato le migliori spighe per l’anno successivo. Gli orticoltori hanno sempre saputo quali pomodori scegliere per ricavarne i semi. In questo modo le varietà si sono conservate e migliorate e i processi evolutivi hanno permesso anche di accompagnare in qualche modo il cambiamento climatico.

NELLO STESSO TEMPO, la ricerca scientifica ha individuato obiettivi ben precisi facendo incroci tra varietà e ottenendo nuovi ritrovati. Ma tutto ha richiesto tempo, il tempo di relazionarsi con la natura in cui tutto ciò avviene.

OGGI, INVECE, SOTTO LA SPINTA delle possibilità offerte dall’applicazione di una innovazione tecnologica si ritiene di dover esprimere un’azione dominante sulla natura cedendo a quell’istinto che accompagna l’uomo da secoli: costruire a proprio uso e consumo, anche gli esseri viventi. In questo caso, però, ci sono troppe contraddizioni a renderci preoccupati.

PRIMO. SUL PIANO PRATICO, sono i nostri agricoltori a pagarne le conseguenze. Chi è in grado di garantire che queste nuove invenzioni di laboratorio saranno stabili e durature nel tempo? Chi può dire che queste alterazioni genetiche non si portino dietro eventuali modificazioni che rendono le stesse nuove invenzioni suscettibili di fronte ad altre malattie o fisiopatie?

E GLI AGRICOLTORI BIOLOGICI? Nel miglioramento genetico si è sempre parlato di valutazione nel tempo e nello spazio, perché si devono analizzare le reazioni anche alle condizioni climatiche di aree diverse.

OGGI, INVECE, SEMBRIAMO inseguiti dalla fretta che è, in realtà, la fretta di qualcuno di monetizzare questa attività di ricerca attraverso sistemi brevettuali che caricherebbero ulteriormente i costi dell’accesso per i singoli agricoltori. Secondo. Siamo davvero disponibili a mettere in gioco la nostra biodiversità? Perché è evidente che una varietà ingegnerizzata, una volta in pieno campo, disseminerà la sua «trasformazione».

ED E’ INUTILE CHE CONTINUIAMO a nasconderci dicendo che questa innovazione tecnologica permette di ottenere nuove varietà che si potrebbero ottenere anche in natura, con nessuna conseguenza, quindi, per la biodiversità.

È ABBASTANZA NOTO CHE I NUOVI Ogm si basano su una tecnologia analoga a quella dei vecchi Ogm e quindi la decisione della Corte di giustizia europea del 2018, che li ha inseriti nella medesima normativa, ha un suo senso compiuto.

TROVARE LE SCORCIATOIE legislative su un tema così delicato e che coinvolge non solo la scienza e la politica ma anche la società civile, appare un colpo basso che lascia sgomenti. Oggi abbiamo bisogno di raccogliere forze ed energie per operare un’azione dissuasiva e tenere la barra dritta sul principio di precauzione auspicando, nel frattempo, impegni più concreti e misurabili in termini di transizione agroecologica, unica risposta per poter guardare al futuro con positività.