«Allora, come lo vogliamo fare?» Quando si progettava la grafica di un quotidiano la domanda era questa. Il disegno di un giornale era considerato un’operazione importante: riunioni, prove su prove, prima, seconda e terza stesura fino a quando l’oggetto era considerato finito, alias «perfetto». La sua prima uscita era considerata un evento.

Progettare un quotidiano è come progettare un centro polifunzionale: si parte dalle fondamenta e si arriva alla maniglia della finestra. Su indicazione di direzione e redazione si cerca lo stile del giornale, la sua essenza che lo renderà unico e riconoscibile in mezzo agli altri.

Si parte dal formato, piccolo, grande, stretto, largo, poi la gabbia, quante colonne, quanti moduli, che tipo di respiro si vuole avere: compresso come Il Foglio o arieggiato come Domani? Si crea una gerarchia e un senso di lettura per agevolare il lettore. Si studiano i caratteri e talvolta se ne fanno disegnare apposta: è il caso di Repubblica o del Corriere della Sera. Trovati i caratteri giusti questi poi vanno declinati: titoli grandi, medi, piccoli, testi, box, schede, didascalie, sommari, firme, capolettera, etcetera. Poi, in ordine sparso, i colori, i fili, le infografiche, come usare le immagini in modo diverso dai competitor e tanto altro. Finita questa trafila si passa alla stesura dei format e delle pagine mastro. Spesso poi i quotidiani hanno altri dorsi, come Alias che avete tra le mani adesso. In questo caso quotidiano e supplemento devono «parlarsi»: avere similitudini che diano la sensazione di far parte della stessa matrice.

È un lavoro che occupa tempo e che richiede una partecipazione della redazione, di artistico c’è ben poco. È uno strumento che andrà utilizzato da molte persone: deve funzionare a perfezione, ogni elemento deve avere una sua funzione. Questo preambolo per dire che nei quotidiani vigono le regole, senza di queste la confusione regna. Sembrano discorsi datati: Internet ha mangiato terreno alla stampa tradizionale e continua a farlo in maniera inesorabile. Fatto sta che i giornali di carta, caparbiamente, continuano a uscire in edicola. Nell’ultimo periodo tre nuovi quotidiani si sono affacciati nel mondo della carta stampata: l’Unità, diretta da Piero Sansonetti, il Riformista diretto da Matteo Renzi e l’Identità il cui direttore è Tommaso Cerno.

Non conosco i progettisti che li hanno disegnati ma alcune cose mi hanno colpito. Prendiamo l’Unità, l’ultimo nato: in prima pagina la testata sovrasta ciò che c’è sotto. La testata però si ripete ogni giorno, sono i titoli delle notizie quelle a cui dare risalto: così non funziona. Apriamo il giornale e troviamo articoli molto lunghi e senza alcun respiro: nessun titolino a spezzare il testo, a capo rari, il carattere troppo piccolo. Articoli siffatti sono stati da tempo abbandonati: la lettura su Internet ci ha abituato a leggere piccoli paragrafi, ha imposto un respiro a cui la carta, vista la supremazia del digitale, si è dovuta adeguare. Anche il carattere dei titoli è, a mio parere, discutibile. Si tratta del Windsor Extra Bold Condensed la cui versione non compressa è del 1905. Forse l’idea era di tornare al passato glorioso dell’Unità però c’è da dire che mai questo quotidiano ha usufruito di questo carattere, non si tratta quindi di una citazione storica. Riguardo all’uso delle immagini riscontro un altro problema: gli articoli sono corredati solo dai volti delle persone citate. Sono anni che, interviste a parte, questo dualismo è stato evitato. È ridondante e al lettore non arriva un valore aggiunto. Una ricerca iconografica ben congegnata «interpreta» l’articolo fornendo immagini che sono una seconda lettura del testo, non la ripetizione dello stesso.
Ho scritto dell’Unità ma questo vale, testata a parte, anche per gli altri due quotidiani: è una prassi.

Perché tanta preoccupazione? La progettazione di uno stampato non ha mai ucciso nessuno. È vero, però credo che non sia una questione di lana caprina. Negli ultimi anni la comunicazione e la visione sono diventati preponderanti. Computer, tablet e smartphone hanno trasformato l’equilibrio tra i nostri sensi. La vista ha surclassato gli altri quattro: siamo diventati produttori e assimilatori di immagini come mai era successo. La comunicazione ha subito lo stesso percorso: grazie ai social mai si era comunicato così tanto. Comunicano tutti e di continuo.

Non è un caso che i tre direttori dei giornali citati siano «televisivi». Servono alla televisione e a loro la televisione serve per promuovere il loro giornale, le loro idee. Sono quindi ottimi comunicatori: sanno cosa dire, come dirlo, quando dirlo e di sicuro il pubblico ricorda più i loro volti che i loro nomi. Allora perché i prodotti di cui sono promotori sembrano tutti giornali «di quartiere»?

Credo che la risposta sia questa: so cosa e come scrivere sul mio giornale ma non so come mettere la notizia in pagina e forse poco m’importa. C’è una scissione che prima non c’era tra contenuto e contenente. L’apparato di titoli, articoli e tutto il corredo necessario che serviva all’informazione è come se fosse superfluo. L’architettura è crollata. Insomma si è tornati indietro, quando le pagine dei quotidiani erano montate in tipografia e l’unica cosa importante era far entrare più notizie possibili e chiudere in tempo. A parte pochi esempi, dalla nascita dei giornali — circa metà del 1600 – fino agli anni ’70 le cose sono andate così. Il cambiamento è avvenuto grazie alla tecnologia e all’influsso di una nuova generazione di grafici che hanno convinto editori e direttori che il quotidiano non era solo un raccoglitore di notizie ma un media esso stesso, e come tale andava trattato. Ora che la tecnologia è gigante e che la grafica è considerata una vera professione sono i nuovi direttori che considerano la fattura del loro giornale come un abbellimento, convinti forse del fatto che basta la loro parola per entusiasmare i lettori. Non funziona così, sapevatelo!