Cacciatore (del coro), figurino di Giuseppe Palanti per Der Freischütz (1906), Archivio Storico Ricordi
Cacciatore (del coro), figurino di Giuseppe Palanti per Der Freischütz (1906) – Archivio Storico Ricordi
Alias Domenica

Appostamenti e fuga, gli spettri del cacciatore di Caproni

Poesia italiana del Novecento Paesaggi sterili e tetri abitati dall’angoscia; il bosco mutato in allarmata radura... Il franco cacciatore, la raccolta del 1982 di Giorgio Caproni (tra Weber e Hoffmann), nel commento di Adele Dei per la Garzanti
Pubblicato 2 mesi faEdizione del 1 settembre 2024

Rileggere Il franco cacciatore di Giorgio Caproni nella recente edizione curata da Adele Dei (Garzanti «i grandi libri / Poesia», pp. 222, € 16,00) rafforza la convinzione che il libro, pubblicato in origine nel 1982, possa ancora considerarsi il «più spettrale che sia mai apparso nella letteratura italiana», come scrisse a suo tempo Pietro Citati. I fantasmi del Franco cacciatore, sempre «in fuga o in appostamento» (così Adele Dei), assumono le sembianze di ombre pallide e inafferrabili, larve ormai prive del loro antico accento familiare. A volte esibiscono un atteggiamento minaccioso, ma raramente l’intimidazione si traduce poi in un agguato. Non ne deriva tuttavia alcun sollievo: la pena irrazionale, la malinconia, la tenerezza, che nel Seme del piangere consentivano agli spettri di ritrovare una provvisoria parvenza di vita, si irrigidiscono ora sotto un velo di brina, in paesaggi sterili e tetri, abitati dall’angoscia («Il bosco s’è mutato / in allarmata radura»). Il gelo che avvolge i versi del Franco cacciatore richiama il limite cui soggiace il contenuto stesso della poesia, l’interruzione della continuità, il vuoto dell’astrazione. Quella che Caproni definisce altrove la «veemente baldanza / del sangue», l’«antistoria» – cioè l’esperienza vitale, nelle sue infinite determinazioni – è ora un oggetto distante, perfettamente ricomposto e perciò inerte: «Un brusio / di voci afone, quasi / di foglie controfiato / dietro i vetri» (Foglie); «I morti / restano morti e invano / li richiama il pensiero» (Riandando, in negativo, a una pagina di Kierkegaard).

I moventi e i significati di questo processo, nel quale è continuamente implicata una riflessione sullo statuto del linguaggio poetico, sono illustrati con finezza nelle note di commento di Adele Dei, tra le interpreti più acute dell’intera opera di Caproni. Nel componimento Albàro, osserva la studiosa, «la parola sembra sciogliersi nel suo suono». È un’intuizione molto felice. La poesia, terza della sezione «Sul vento», mette a tema l’opposizione tra il moto indifferenziato dell’esistenza, figurato da un rumore lontano che il poeta vorrebbe attribuire ai flutti marini, e la litania funebre della «storia»: «Se al crepuscolo, almeno, / ci fosse, dietro i vetri, il mare… / Mazas 1º… / Studio / 28. / Amore… / Tremore / in trasparenza… / Se almeno / questo fosse il rumore / del mare… / Non / lo sopporto più il rumore / della storia…». Identificandosi con il suono che precede, e nega, la sua trasmigrazione nella sfera del concetto, la parola trattiene, per quanto possibile, l’eco dei corpi da cui è stata generata; prolunga il suo contatto con ciò che esiste prima che la forza obbligante di ciò che è finito – la forma, la storia – la riduca a un semplice segno.

Il titolo del libro fu scelto da Caproni, come in altri casi, in una fase già avanzata del lavoro. Il richiamo, esplicito, al Singspiel di Carl Maria von Weber, Der Freischütz, conferisce all’intera figurazione un carattere fiabesco. Sarebbe improprio considerare il libretto di Weber (o meglio di Friedrich Kind, rivisto però profondamente da Weber) come una fonte di Caproni: è piuttosto l’opera che fornisce al poeta, a raccolta quasi completata, un’occasione di riconoscimento (e che ispira, da sola, la sezione «Viktoria», aggiunta e inviata all’editore nel febbraio del 1982, pochi mesi prima della pubblicazione). In un’intervista rilasciata nel 1987, Caproni spiega che la genesi del Franco cacciatore risentì anche dell’influsso di un altro testo, il romanzo Gli elisir del diavolo di E.T.A. Hoffmann. Un confronto, necessariamente cursorio, tra i componimenti della raccolta e le due opere citate permette di apprezzare i tratti più significativi del posizionamento poetico di Caproni. Sia in Weber-Kind, sia in Hoffmann, il fantastico è sottomesso a leggi che non negano i normali vincoli della consequenzialità: apparizioni e incantesimi vivono in spazi dominati dagli stessi rapporti causali che regolano le rappresentazioni di tipo realistico; nessuna ambiguità, per altro verso, si insinua mai nella dialettica tra bene e male. Gli oscuri presagi del cacciatore Max, nel primo atto del Freischütz, sono pienamente confermati dagli eventi che seguono. In Hoffmann, la presenza di un sosia crudele del frate Medardo trova una sua labirintica ma non illogica giustificazione. Caproni separa l’elemento magico dal sostrato razionale, dando vita a sequenze di immagini, e di azioni, in cui ogni istanza ordinatrice è abolita.

La sezione «Reversibilità», dominata dal motivo del doppio, è in questo senso esemplare. Anche Caproni, come l’amico Pier Paolo Pasolini, evoca il concetto di dissociazione per evidenziarne la natura astratta e arbitraria. La scissione del protagonista di Petrolio in Carlo di Polis e Carlo di Tetis è una semplice «regola narrativa», «un motivo convenzionale» che assicura un’apparenza di «limitatezza e leggibilità» a un testo che, aspirando a identificarsi con il disordine e la vita, sarebbe «per sua natura illimitato e illeggibile» (Appunto 42, Precisazione). Analogamente, nel Franco cacciatore la «frantumazione» dell’io contraddice e al contempo determina l’«ossessione dell’identità», per citare ancora Pasolini. Nell’attraversare questo tema, Caproni apre il suo registro al sanguinario e al macabro. Gli «assassini» che il poeta scorge voltandosi finalmente «indietro», in Rivelazione, hanno «tutti» il suo stesso «volto». La scena descritta nel testo successivo – un’allucinazione cruenta e incongrua – appare come l’esito, non lineare, dell’avvenuto riconoscimento: «Uccidilo appena t’avrà ucciso. / Ti ci vorrà poco a piantargli / la lama della sua morte in viso» (Rivalsa). Segue, nella poesia L’esitante, il sinistro incontro con un altro doppio, la cui mano protesa in un tentativo di saluto, si legge nel commento di Adele Dei, terrorizza per la sua «immobilità» cadaverica: «Quel viso di babuino… / La bocca sempre lì lì per dire… / Per parlare… / Sempre / muta… / La mano / fermata nell’atto stesso / di porgerla…».

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