Appoggio esterno a un governo M5S
Un accordo tra il vincitore e lo sconfitto non è mai un patto tra eguali. Occorre realismo e freddezza nelle scelte “responsabili”. Il vincitore non va sottovalutato: passa con estrema […]
Un accordo tra il vincitore e lo sconfitto non è mai un patto tra eguali. Occorre realismo e freddezza nelle scelte “responsabili”. Il vincitore non va sottovalutato: passa con estrema […]
Un accordo tra il vincitore e lo sconfitto non è mai un patto tra eguali. Occorre realismo e freddezza nelle scelte “responsabili”. Il vincitore non va sottovalutato: passa con estrema praticità da un estremo all’altro. Dalla mistica «mai alleanze, no al principio politico del compromesso» alla dichiarazione della sacra disponibilità a siglare qualsiasi accordo, pur di incoronare il «capo politico». Questa duttilità potrà far storcere il naso in nome di un malinteso valore morale della coerenza, ma l’ambiguità più beffarda è una prova di forza, per chi può impunemente permettersela.
Fino a quando un movimento, in nome di un elastico «contratto di programma», può proclamare senza contraccolpi che in un governo del cambiamento è indifferente che ci sia Salvini o il Pd, ha dalla sua una forza straordinaria. Finché dura questa primordiale potenza, è possibile impunemente evocare le cose più contraddittorie. Alla fine il peso della contraddizione riemergerà, ma ancora è presto per vederlo affiorare. L’idea che il M5S sia un fenomeno effimero, destinato ad essere riassorbito mostrando la semplice disponibilità al dialogo, è una buffa illusione.
E’ falsamente rassicurante la convinzione per cui, per riconquistare milioni di ex elettori di sinistra che si sono provvisoriamente (?) accasati nel M5S, basta mostrare una propensione al negoziato per la costruzione di un governo. Le semplificazioni andrebbero scartate, soprattutto se alle spalle c’è il bastone che percuote chi ha incassato la sconfitta più dura. Prima di entrare in un negoziato, bisognerebbe avere chiara la consistenza effettiva dell’interlocutore. Cosa è il M5S, che si proclama oltre destra e sinistra, al di là di capitale e lavoro: un moto di rivolta o un potere che organizza la disobbedienza con le maschere del rifiuto dell’élite? L’indifferenza circa l’identità dell’alleato prescelto svela la miscela costitutiva di un non-partito che dalle alture di un eticismo assoluto precipita senza battere ciglio sul terreno di un nichilismo reale. Al momento, il M5S è una entità misteriosa che raccoglie voti a dispetto delle candidature, delle prove di governo nella capitale, della coerenza programmatica, del radicamento effettivo.
E chi è il «capo», quali sono i margini di manovra dei leader parlamentari visibili rispetto ai centri di comando che restano occulti? Il M5S ha un doppio corpo. Uno visibile e l’altro invisibile. Con quale dei due corpi stabilire i termini del compromesso?
Da una posizione di umiliante sconfitta, non solo organizzativa ma culturale, e quindi assai più devastante, per la sinistra sarebbe davvero sciocco ritenere di poter condizionare, trattare alla pari, muoversi con la ingenua presunzione di essere una superiore élite sfiorata dai lumi e quindi in grado di civilizzare (istituzionalizzare) i barbari. Di funzioni pedagogiche non c’è proprio bisogno. Per evitare di avere piena coscienza di essere precipitata nel suo grado zero che impone drastiche scelte, la sinistra trova un comodo alibi differenziandosi tra aventiniani e governisti.
La crisi irreversibile del Pd pone invece la necessità di separare i destini organizzativi: un percorso più moderato con cui dialogare e un processo autonomo di ricostruzione ideale di un partito di chiara ispirazione marxista.
Nella consapevolezza dello scenario strategico di lungo periodo, va impostata la questione (secondaria) della governabilità.
La sinistra sfaldata e in via di ricostruzione non può confidare in scorciatoie ritenute comode. La partecipazione a un governo, in posizione nettamente subalterna, non si pone, in termini realistici essa significherebbe l’estinzione più celere perché la forza maggiore schiaccia sempre quella minore nella sua pretesa di moderare, costituzionalizzare. Ancora più assurdo è il calcolo di lucrare qualche beneficio dall’incontro peggiore, quello tra Salvini e Di Maio destinato a ridestare dal sonno i voti dati da sinistra al M5S.
Il Pd e la sinistra non devono prenotare ruoli di governo da cui sono stati esclusi dagli elettori. Devono però impedire che la questione della governabilità obblighi il M5S a scegliere la via della formazione di governi peggiori. Consentire, con un calibrato uso di voti tecnici di fiducia (per superare la quota dei deputati di destra) e di astensioni, la costituzione di un governo di minoranza del M5S è la scelta politicamente più sensata. Obbliga i vincitori al confronto con il principio di realtà e dà alla sinistra sconfitta il tempo per ricostruire idee, organizzazioni, radici sociali. Si tratta di un patto tra diseguali (che dà al più debole la forza di far saltare il gioco in ogni momento) che non ha alternative in sistemi politici tripolari.
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