Il primo ottobre 2022, a meno di due settimane dalla fine della legislatura, nella cornice fiorentina di TourismA, il Mic ha presentato la candidatura dell’Appia Regina Viarum alla lista del patrimonio mondiale Unesco. La proposta, basata su un piano di gestione elaborato da Fondazione Santagata, è stata la prima avanzata direttamente dal ministero.
Il protocollo di intesa, in vista di un riconoscimento auspicato entro il 2024, è stato firmato a Roma lo scorso 10 gennaio, presso le Terme di Diocleziano. Il sottosegretario Gianmarco Mazzi – con l’unica variante di qualche accento su un vago senso di «grandezza romana» a compensare il venir meno del taglio meridionalista di Franceschini – ha ripetuto per l’occasione lo stesso mantra: l’obiettivo sarebbe «la crescita sociale ed economica di molte delle zone coinvolte che, spesso, sono aree interne e quindi fuori dai grandi circuiti turistici».
Nonostante nello scorso aprile, al Vinitaly di Verona, Giorgia Meloni abbia brindato con gli chef associando all’Unesco la cucina italiana, tra Caravaggio e Joe Bastanich, più credibilmente è ancora sull’Appia che si misura la visione dell’Italia per il patrimonio culturale. Ne ragioniamo con Valerie Higgins, docente presso l’American University of Rome, che a lungo ha indagato le influenze delle recenti storie nazionali sulle pratiche archeologiche e sulle contemporaneità dell’antico.

Nel protocollo, l’Appia è chiamata «Regina Viarum». Che connotazione sottenderebbe tale definizione: militare, religiosa, culturale?
Non so quanto sia diffuso a livello popolare l’appellativo Regina Viarum, che rientra piuttosto in un discorso di marketing tuttavia perfettibile. Tutti la chiamano Appia Antica. Noi giudichiamo con criteri prevalentemente estetici e, di conseguenza, la strada è celebre soprattutto per la particolare idea di bellezza che veicola. Quella della tranquillità: non c’è il traffico, l’atmosfera è bucolica e hollywoodiana. È in grado di trasportare le persone in un mondo altro; diversamente dal Colosseo, per esempio. Lì la vita moderna è sempre presente; sull’Appia si può quasi dimenticare. In regina viarum leggo questo, non tanto il dato storico, secondario rispetto all’impatto visivo. Ricordo che a Mosul, in Iraq, dove una squadra dell’Iccrom sta restaurando la città, sono state le aspettative del pubblico a indirizzare le scelte ricostruttive: un minareto che certamente prima pendeva, ma per errore, è stato ricostruito pendente. Così, a Roma, ciò che si cerca sull’Appia è il fascino di rovine incorniciate dagli alberi. Una cultura dentro la natura. Un luogo ibrido, non più urbanizzato eppure non ancora selvaggio.

Uno storico invece ci parlerebbe forse di una via attraversata dalla violenza…
Molti eventi da essa vissuti sono tutt’altro che bucolici: quale armonia con la natura dalla teoria di croci che tra Capua e Roma umiliò la sconfitta di Spartaco? È feroce anche il rapporto che la strada intrattenne con il paesaggio, violentato dai tanti sbancamenti effettuati per renderla dritta. L’Appia simbolizza la forza militare di un impero capace di costruire un monumento così altisonante: una retta che nemmeno i monti possono ostacolare. Adesso, però, deve diventare un cammino europeo, ecumenico. Magari ispirato alla tipologia delle cultural routes: strade culturali del Consiglio d’Europa concepite per unire luoghi distanti. E allora bisognerebbe cercare dei collegamenti, specialmente dove non sono visibili: questa è la sfida. È chiaro lo scopo economico: far sopravvivere i siti minori attraverso marketing e pubblicità comuni. Se il governo non vuole ridurre il peso del turismo sulle città d’arte, l’alternativa per raggiungere una maggiore sostenibilità è quella di incoraggiare i turisti a visitare luoghi meno frequentati. E anche se l’Appia gode di grande fama, nella stessa Roma pochi la visitano e, di questi, pochissimi pagano. L’Appia poi, a differenza del finora unico modello italiano – quello della Francigena – non è un cammino religioso: anche questa sua secolarità sarà utile per attrarre in maniere diverse.

Oltre al decongestionamento del turismo, su quale altri aspetti bisognerebbe lavorare?
Certamente sull’educazione del grande pubblico, iniziando dal coinvolgimento delle comunità che lungo l’Appia abitano. Se si ha un titolo come world heritage diventa più facile, qualora lo si voglia e lo si programmi, evitare il degrado e combattere gli abusivismi. Nel 1972, quando fu siglata la World Heritage Convention, lo si fece per proteggere i siti. Ma poi, esploso il turismo, si prese a pensare all’economia. Il problema del turismo dei beni culturali è che crea gentrificazione: i prezzi si alzano e chi non può più vivere in centro va via, anche perché non si creano opportunità di lavoro in loco. Tutti i profitti se ne vanno lontano, quando si lascia il turismo al mercato e al neoliberismo. E un sito storico non può sviluppare economia all’infinito. C’è un limite. Il Colosseo, per esempio, è al limite.

In Italia, negli ultimi anni, è cambiata la visione collettiva del passato?
Mi sorprende anzi come poco sia cambiata, in confronto a quanto successo negli Stati Uniti e nel Regno Unito, in Francia e in Germania. Vengo dalla Gran Bretagna, dove molto si è discusso a proposito dell’imperialismo britannico in India. L’Italia, oltre a non fare i conti con il colonialismo, sembra richiedere una laurea per accettare opinioni sulla storia. Altrove, con un dibattito pubblico si mira a raggiungere chiunque, non solo chi ha studiato. Altrove, la Convenzione di Faro è applicata sul serio, perché le comunità vengono chiamate in causa, perfino per quanto riguarda gli scavi archeologici. Del resto, fu approvata nel 2005 per sottolineare quanto la percezione del proprio patrimonio sia in relazione con i diritti umani e con il benessere sociale.

Bisogna rinegoziare anche il ruolo dell’antica Roma?
La nostra visione del mondo romano, legata troppo al concetto di impero, non è ben bilanciata con i valori democratici. Roma e Atene sono due grandi capitali europee moderne che convivono con siti archeologici. Atene però fa meglio perché punta sul simbolismo della democrazia; Roma invece preferisce pensarsi imperiale, anche se a lungo è stata una repubblica. E l’immagine di Roma più diffusa è tramandata dal cinema, che si concentra su personaggi come Nerone, Commodo. Roma però è anche madre dell’umile e modesto Cincinnato. C’è una superficialità nella narrativa che sottovaluta i turisti, quasi non fossero pronti per andare a fondo. Va bene passeggiare sull’Appia per la sua atmosfera arcadica, ma passeggiando siamo pur tutti in grado di intraprendere altre riflessioni.