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Appia o Casilina? Bellezza e bruttezza di una (ex) grande Roma

Appia o Casilina? Bellezza e bruttezza di una (ex) grande RomaL'Appia antica in una foto d'epoca

Città La «via più nobile del mondo», la via che porta alle Terme di Caracalla, al Colosseo e al Campidoglio ormai sconfina nel nulla della bruttezza di periferie e nuove borgate. Ai tempi del sindaco Petroselli si parlò molto di un grande progetto per riconnettere la grande bellezza alla sterminata periferia: il Progetto Fori, di cui si è persa ogni traccia

Pubblicato circa 4 anni faEdizione del 9 ottobre 2020

Nel libro di Malaparte, La Pelle, gli alleati (1943), sbarcati a Salerno e superato il fronte di Cassino, si dirigono verso Roma lungo la Casilina. Al comando delle truppe alleate è il colonnello Jack Hamilton, grande amico di Malaparte, mentre quest’ultimo, in qualità di capitano, svolge il ruolo di ufficiale di collegamento italiano. Jack è professore di letteratura in una grande università americana e molto interessato alla storia dell’Europa e dell’Italia in particolare, amante della poesia di Pindaro, Orazio e Virgilio.

Nei pressi di Roma Malaparte e Jack si uniscono alla colonna della Quinta Armata del generale Cork. All’altezza di Ciampino, Malaparte suggerisce a Cork di abbandonare la via Casilina per proseguire sull’Appia Antica “la via più nobile del mondo, la via che porta alle Terme di Caracalla, al Colosseo e al Campidoglio, dove sono passati Mario, Silla, Giulio Cesare, Cicerone, Pompeo, Antonio, Augusto, Tiberio”.

Gli Sherman americani marciano lungo i due solchi scavati, un tempo, dalle ruote dei carri romani. Durante questo percorso Malaparte spiega al generale Cork il senso dei resti disposti a destra e a sinistra di quella nobile strada. Sono le tombe delle più nobili famiglie dell’antica Roma: di Locullo, il sepolcro di Giulio Cesare, quella di Cicerone, la tomba di Silla e quella di Cotta, il più celebre attore dell’antica Roma.

Giunti alla fine dell’Appia Antica, un grido di meraviglia esplode dal petto dei soldati alla vista delle mura aureliane, Porta Latina, la tomba di Caio Cestio, i rossi archi degli acquedotti, la grande torre merlata della tomba di Cecilia Metella e poi Porta San Sebastiano, l’ingresso alla città. «That’s Rome!» esclama estasiato e incredulo il generale Cork in preda alla “sindrome di Stendhal”.

Immaginiamo ora che un incredulo turista, arrivato a Roma per la prima volta, prosegua inoltrandosi sotto la porta di San Sebastiano, per la stretta strada incassata fra gli alti muri rossi e passando davanti alle tombe degli Scipioni. Poi oltre ancora attraverso le Terme di Caracalla e i ruderi imperiali, il colle del Palatino, il Colosseo e la via dell’Impero, i Fori e il colle capitolino.

Ebbene quell’incredulo turista, come il generale Cork, sarebbe probabilmente colto da una vertigine, da improvvisi capogiri proprio come Stendhal durante la visita alla Basilica di Santa Croce a Firenze. La Grande Città si svelerebbe attraverso l’incredibile bellezza delle sue memorie, testimoni di una lunga e gloriosa storia stratificata in esse: i gioielli della nonna, come ebbe a dire Joyce. Facciamo fare un percorso diverso al nostro turista. Immaginiamo che arrivi nella Capitale percorrendo la via Casilina (qualche decennio dopo).

La sensazione che questa volta proverebbe sarebbe quella di una grande bruttezza, fisica, sociale, architettonica, urbanistica. Quel turista attraverserebbe i territori di Borghesiana, Torre Gaia, Tor Bella Monaca, Giardinetti, fino a trovarsi al cospetto di quel gigantesco anello stradale del Raccordo, unico segno riconoscibile e testimone di un grande fallimento: quello del sistema direzionale romano previsto dal Piano regolatore del 1965.

Passato il Raccordo il panorama non cambia: Torre Maura, Centocelle e poi i quartieri diventati popolari di: Marranella, Torpignattara, fino ad arrivare al quartiere “gentrificato” del Pigneto; quartieri dove pure si manifestano, sparpagliate e non organizzate, forme di “resistenza” al declino e al degrado, alla stagnazione della città grande.

Nel primo caso il turista incredulo incontrerebbe la Grande città, nel secondo una città sterminata dove ancora il Piano regolatore del 2008 continua la sua nefasta opera di devastazione attraverso le compensazioni edilizie motivate dai famigerati “diritti acquisiti”; volumi vacanti e sospesi, in attesa di “atterrare” sulla città grande.

Un tempo la città e la questione sociale erano lo sfondo delle grandi narrazioni: da Zola, a Hugo a Flaubert, fino al dopoguerra nei film di De Sica, Bertolucci, De Santis, Germi, Lattuada, Castellani. Finito il periodo dei grandi conflitti e ridotta a cronaca nera la questione sociale, la cultura non ha avuto più il ruolo di raccontare, combattere ed eliminare le sofferenze, ma solo, come diceva Vittorini, nel primo numero de Il Politecnico, di consolarle.

Scomparsi gli intellettuali critici, si apre la stagione dei tecnici, degli specialisti, dei manager, di coloro che hanno sempre una risposta “adatta” per tutti i problemi, che sanno tutto di niente e che si proclamano come i futuri vincitori della città devastata. Ai tempi del sindaco Petroselli si parlò molto di un grande progetto che avrebbe riconnesso la grande bellezza alla sterminata periferia: il Progetto Fori, di cui si è persa ogni traccia.

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