Sospeso come una trance nel flusso della memoria, Apollo 10 e mezzo è il film più proustiano di Richard Linklater, un regista che ha in comune con l’autore di Alla ricerca del tempo perduto una profonda fascinazione per la rappresentazione artistica del flusso temporale (la trilogia dei Before), i viaggi nel passato (La vita è un sogno, Tutti vogliono qualcosa) e progetti la cui produzione o il cui arco drammatico si articolano nello spazio di molti anni (Boyhood e, attualmente in lavorazione, Merrily We Go Along, un film da girarsi in vent’anni).

Oggi naturalmente associato alla scena liberal alternativa e alla cultura cinefilo/cinematografica di Austin, Linklater è in realtà nato a cresciuto a Houston, a pochi chilometri dalla Nasa. È in quella città e in quell’infanzia anni Sessanta che è ancorato il suo ultimo film, un’idea in gestazione da dodici anni che, alla fine, si è realizzata per Netflix.

SONO I VECCHI programmi tv, il luna park futuribile Astroland, certe canzoni, le biciclette, la luce dorata del tramonto (l’unica ora del giorno in cui il sole in quella parte del Texas non sbianca tutto, ammazzando i colori) le madeleine di Linklater e del suo collaboratore di lunga data, Tommy Pallotta. Insieme, nel 1998, i due avevano scoperto, grazie a un animatore texano coetaneo, la tecnica rotoscopica – che permette di animare a posteriori, fotogramma per fotogramma, immagini girate dal vivo – e ne avevano usata la qualità «tremolante», ipnotica, per Waking Life, un film magico, in bilico tra sogno a occhi aperti e meditazione filosofica, uscito nel 2011, con Ethan Hawke, Julie Delpy, Caved Zahedi e Steven Soderbergh in versioni anime di sé stessi. Linklater e Pallotta erano tornati a sfruttare il potenziale lisergico del rotoscopio per l’adattamento da Philip K. Dick A Scanner Darkly – Un oscuro scrutare (2006), animando tra gli altri Keanu Reeves.

E il rotoscopio – anche se qui mischiato a tecniche di animazione più tradizionali e fotorealistiche – sembra il linguaggio naturale anche per questo nuovo lavoro che sgorga dallo spazio reale/irreale dei ricordi d’infanzia.

Il tutto è filtrato da una leggera vena di nostalgia – e nell’America serena, ottimista e proiettata verso un futuro che prevede persino la «conquista dello spazio» c’è un po’ la solarità fissa di un quadro di Norman Rockwell

Raccontato all’indietro dalla voce di Jack Black (un altro grande collaboratore di Linklater), Apollo 10 e mezzo è ambientato nel 1969, a Houston, e racconta il primo viaggio sulla luna come vissuto da Stan (il giovane attore Milo Coy) un bambino di nove anni che sogna di essere un astronauta lui stesso, impegnato in una missione segretissima molto simile a quella di Armstrong e Aldrin e che precede la loro, a bordo di una navicella costruita per sbaglio troppi piccola per farci stare un adulto – l’Apollo 10 ½. Mischiando la rielaborazione animata di note fotografie e girato televisivo d’epoca, incluse le immagini storiche dell’allunaggio, a sequenze di animazione pura e più stilizzata, Linklater ottiene un effetto favola che si sovrappone alla ricostruzione storica e ai ricordi di Stan della sua vita con gli amici e la famiglia.

IL TUTTO È FILTRATO da una leggera vena di nostalgia – e nell’America serena, ottimista e proiettata verso un futuro che prevede persino la «conquista dello spazio» c’è un po’ la solarità fissa di un quadro di Norman Rockwell. Ma quella stessa semplificazione, nel film di Linklater, è messa in crisi sia dalla qualità tremolante, instabile delle immagini che dal fatto stesso che si tratta di ricordi, quindi non necessariamente reali. Apollo 10 e mezzo che ha avuto la sua prima mondiale a South By South West, il festival di Austin, in marzo, è poi uscito in un piccolo gruppo di sale americane ed è oggi disponibile sulla piattaforma.