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Apollinaire, simultaneismo e joie de vivre

Apollinaire, simultaneismo e joie de vivreRobert Delaunay, Paysage au disque solaire, 1906 ca., Parigi, Musée National d’Art Moderne, Centre Pompidou

Poesia e avanguardia La sperimentale raccolta «Alcool» (1913) contamina tradizione e lirismo con l’invettiva anti-poetica: nuova traduzione da Passigli

Pubblicato più di un anno faEdizione del 21 maggio 2023

Dopo Poesie per Lou e altri versi d’amore, edito da Passigli nel 2017, Fabio Scotto si cimenta ancora con Guillaume Apollinaire, pubblicando, con testo a fronte, la traduzione integrale di Alcool (Passigli «Poesia», pp. 256, € 19,50). Si tratta di una delle raccolte capitali del Novecento, uscita originariamente nel 1913 presso il Mercure de France e indissolubilmente legata al concetto di modernismo, nonostante il curatore precisi che sia più opportuno situarla «a cavallo fra tradizione, lirismo, modernità e avanguardia». Non è un caso che, in quello stesso anno, Apollinaire licenziasse le Méditations esthétiques, dedicate al sodalizio con i pittori cubisti, e il manifesto dell’Antitradition futuriste che delineano il percorso di questo funambolo della parola che riuscì nel difficile compito di svecchiare un retaggio poetico di ascendenza simbolista tramite le teorie più oltranziste dell’avanguardia pittorica (si pensi ai successivi calligrammi che radicalizzano la concezione mallarmeana del Coup des dés e l’assunto rimbaldiano secondo cui «il faut être absolument moderne»).
Ma il 1913 è anche l’anno in cui esce il repertorio dell’Enfer de la Bibliothèque Nationale, dove Apollinaire, con la collaborazione di Fernand Fleuret e Luis Perceau, cataloga i libri considerati osceni e licenziosi, da cui ha preso spunto per le sue opere libertine, da Les onze mille verges a Les Exploits d’un jeune Don Juan. Da qui sbocceranno Les Mamelles de Tirésias e Les Diables amoureux; quest’ultimo titolo, comprendente cammei sull’Aretino, su Giorgio Baffo, Sade e altri scrittori irriverenti, apparirà postumo. Non sarà di poco conto rilevare che, a proposito del dramma del 1917, dove alla prima un esaltato Jacques Vaché, memore delle prodezze balistiche del suo idolo Jarry, minaccerà di sparare a caso sulla folla, Apollinaire conierà il termine «surrealismo». Il proposito era quello di contrastare la concezione naturalistica e il verismo borghese alla Henry Becque, contro cui si scagliò anche Raymond Roussel mediante riduzioni teatrali strampalate quanto i suoi congegni narrativi (si ricordino le machines célibataires che influenzeranno il Grande Vetro del marchand du sel Duchamp).
Affrontata a più riprese nella nostra lingua (citiamo l’Opera poetica, uscita nel 1976 per Guanda, a cura di Mario Pasi, e il dittico Alcool-Calligrammi allestito da Sergio Zoppi negli «Oscar» Mondadori nell’86, senza dimenticare le storiche traduzioni di Sereni, Caproni e Raboni), la raccolta, edita a distanza di un biennio dall’esordio poetico costituito da Le Bestiaire ou Cortège d’Orphée, illustrato da Raoul Dufy, viene qui presentata avvalendosi di una versione che si segnala per aderenza stilistica e fedeltà testuale. D’altronde già Corrado Bologna aveva evidenziato la mancanza di un ordine prefissato, riconducibile «ad una progressione non cronologica o tematica, ma piuttosto iniziatica» della raccolta. La funzione catartica attribuita al logos non avrà più la medesima valenza, proponendo snodi polisemici che si imporranno con l’avvento delle avanguardie sia coeve sia successive. È come se il poeta fosse riuscito nell’intento di riversare in un unico flusso semantico una serie di elementi discordanti, coniugando sperimentazioni linguistiche e ballate rimate della tradizione medievale, rimandi mitologici e suggestioni esoteriche, tesi a formare un collage di ascendenza cubista dove l’affabulazione, anche nei momenti di più scoperta mélancolie, non viene mai disgiunta da una joie de vivre di matrice picassiana (ma non si dimentichi l’apporto del Doganiere Rousseau che, nel 1909, ritrasse Apollinaire con la sua Musa, Marie Laurencin).
Contrassegnata dalla totale mancanza di punteggiatura, la silloge accoglie un’impressionante varietà di registri, passando dal taglio amoroso, ispirato alla lirica trobadorica, all’invettiva che non disdegna toni esacerbati, spesso derivanti dall’argot. Vengono inseriti termini considerati antipoetici par excellence, provenienti da un retaggio specialistico o scientifico. Si crea così una sorta di contaminazione linguistica, basata su spunti rapsodici che si adattano mimeticamente alle occasioni che, di volta in volta, scaturiscono: alle strofe di tipo tradizionale segue un verso libero e salmodiante che si attesta con la virulenza di una frustata, imponendo alle immagini un’autonomia che sembra dotarle di vita propria.
In uno dei componimenti più celebri, Zona, Apollinaire recupera la tecnica del simultaneismo adoperata dai futuristi e da Robert Delaunay, esponente dell’orfismo (o «cubismo orfico»), così definito dal poeta per la ricerca cromatica che differenzia il movimento della Section d’or rispetto a quello canonico di Braque e Picasso. Nel finale il testo sembra orientarsi verso immagini di smembramento («Soleil cou coupé», reso dal traduttore «Sole collo mozzo») che, in qualche modo, si ricollegano alle tecniche decostruzioniste dei cubisti, trovando non poche affinità con il poemetto Les Pâques à New York di Blaise Cendrars, originariamente pubblicato nel 1912 con il titolo Les Pâques presso le Éditions des Hommes Nouveaux (nel ’19 confluirà in Du monde entier, la raccolta edita nella collana gallimardiana della «Nouvelle Revue Française»). In una stroncatura apparsa sul «Mercure de France», Georges Duhamel rimproverava ad Apollinaire di ispirarsi smaccatamente alla poetica, peraltro molto dissimile, di Max Jacob e dello stesso Cendrars (ma si ricordi anche l’apporto di un eccentrico come Remy de Gourmont che, a causa del lupus che gli sfigura il volto, verrà soprannominato dall’amico «Herpes Trismegisto»).
È d’altronde significativo che certe figure ritornino incessantemente nei suoi testi: Enoch, Elia, Apollonio di Tiana, Simon Mago si ritrovano sia nel Passante di Praga, racconto incipitario della raccolta L’Heresiarque et Cie (1910), sia in Zona, dove sono messe in relazione con il tema pionieristico del volo, affrontato in maniera iconoclastica che riecheggia certe trouvailles del «decerebrato» Jarry: «È il Cristo che sale in cielo meglio degli aviatori / Detiene il record mondiale d’altezza». Dopo Zona figurano, quasi a formare un trittico, altre due liriche celeberrime: Le Pont Mirabeau e La chanson du mal-aimé. Nella prima di queste, l’autore riprende l’impostazione di Gaieté et Oriour, una chanson de toile dell’inizio del XIII secolo (disegno ritmico, cadenza delle rime, ritornello), spezzando attraverso l’enjambement il decasillabo in un tetrasillabo e un senario che costituiscono il secondo e terzo verso di ogni quartina. In tal modo i contorni della strofa assumono calligraficamente la forma di un ponte che va a contrapporsi ai distici del refrain, composto da settenari, che intendono rappresentare l’acqua della Senna che scorre sotto le arcate: «Venga la notte suoni l’ora / I giorni vanno io sto qui ancora». Mentre questa lirica è ispirata alla fine dell’amore con Marie Laurencin, la successiva si richiama al rapporto tormentato con Annie Playden, l’istitutrice di origine inglese frequentata dal poeta in Germania (si veda al riguardo anche la sezione Renane dove compaiono testi ispirati all’esperienza tedesca di Apollinaire).
La dedica a Paul Léautaud deriva dall’interesse manifestato dall’autore del Journal littéraire per questa lirica, tanto da indurlo a farla anticipare nel «Mercure de France», di cui era redattore, il 1° maggio 1909. Viene rievocata anche l’ingiusta detenzione avvenuta per il furto della Gioconda al Louvre. Ma tutta la silloge documenta, attraverso svariati accorgimenti stilistici, un articolato periodo di gestazione, che va dal 1898 al 1913, nonostante Michel Décaudin, uno dei maggiori esegeti del «flâneur des deux rives», avvertisse che «il libro assume la sua fisionomia definitiva nel corso dell’inverno 1911-12».

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