Visioni

«Anywhere Anytime», la fragilità di essere persone senza nome

«Anywhere Anytime», la fragilità di essere persone senza nomeUna scena da «Anywhere Anytime» di Milad Tangshir

Al cinema L’esordio di Milad Tangshir, un racconto attuale di sopravvivenza sulle tracce del classico di De Sica. Una bicicletta rubata, le geometrie anonime di Torino, i sentimenti negati

Pubblicato circa un mese faEdizione del 12 settembre 2024

Prima di arrivare in Italia Milad Tangshir viveva in Iran, dove è nato – a Tehran nel 1983 – e suonava la chitarra in un gruppo rock, gli Ahoora coi quali ha realizzato tre album molto bene recensiti dalla critica internazionale. E lui, che nel 2011 si è trasferito in Italia, si è laureato, ha girato diversi corti (The Celebration; 13 Seconds), un doc in VR, Free, di quel graffio metal della sua musica ha portato qualcosa in questo Anywhere Anytime, il suo primo lungometraggio, che presentato alla Settimana della critica di Venezia arriva oggi in sala. Lo spunto, come ha raccontato, rimanda alla propria esperienza di migrante seppure «privilegiato»: «Lontano dal mio Paese ho vissuto l’angoscia dell’invisibilità. Anche se mi trovavo in una situazione molto diversa da quella dei personaggi del mio film, ho avuto modo di conoscere il pericolo di dover affrontare all’improvviso una situazione difficile».

Nel confronto con questa materia Tangshir trova l’equilibrio e la giusta distanza per illuminare una condizione del nostro presente grazie alla precisione visiva, di sguardo e di messinscena che «accompagnano» il dialogo con la sceneggiatura (dello stesso Tangshir insieme a Giaime Alonge e Daniele Gaglianone). E affidano la narrazione alle geometrie dei luoghi, ai corpi, al loro fluttuare senza riconoscersi.

SIAMO a Torino, Issa (Ibrahima Sambou), il protagonista, non ha i documenti , per questo viene cacciato dal lavoro ai mercati generali. Un cugino(Dicko Diango) lo aiuta a entrare nell’universo dei rider, lui ormai ha trovato un posto migliore, ha il permesso di soggiorno, sembra felice, e così gli cede la sua «identità» nelle app dei servizi di consegna dove la persona non esiste: contano il codice e la velocità di risposta. Solo che dopo un po’ a Issa rubano la bici faticosamente comprata e senza non può lavorare. A quel punto il racconto diviene la sua disperata ricerca della sua bicicletta e la progressiva perdita di sé in una realtà nella quale sembra ormai essersi perduta ogni possibile solidarietà reciproca.

SE IL RIFERIMENTO più che dichiarato è Ladri di biciclette di De Sica, di cui Tangshir segue a suo modo le «tappe» della disperazione lungo i passi del personaggio di Issa – mense dei poveri, pedinamento del ladro al mercato delle pulci, aggressione al protagonista degli amici di costui nel casermone di chiaro disagio sociale – il film trova la sua cifra, che è non è mai semplice citazione, nel modo in cui declina questi riferimenti oggi. Non c’è a accompagnare Issa – come accadeva al Bruno nell’Italia del dopoguerra nessun figlio e quelle sue speranze e difficoltà non dicono l’amarezza della condizione di in Paese, il nostro, ma di un essere al mondo che può essere – come suggerisce il titolo, Anywhere Anytime – anche il nome della società di rider per cui lavora Issa – in ogni posto del nostro contemporaneo, in ogni paese d’Europa e altrove.

È in questa frattura globale dove vivono i migranti – ma anche dove si fondano le basi di qualsiasi precariato – che si muove Tangshir filmando il personaggio nel suo spazio privo di una qualsiasi «comfort zone», senza nè protezione né appigli, in cui non esiste l’altro – se non in termini di possibile rivalità e competizione alla sopravvivenza. Il perimetro (il solo ammesso) è questo e basta, il resto è quasi un lusso: amore, amicizia, gratitudine, piccoli istanti di felicità. La bicicletta è il mezzo, lo strumento per esistere, ma non per essere qualcuno. Issa come molti altri nel sistema delle app è quello che consegna, nessuno sa chi sia né chi lo chiama né chi riceve le cose a casa, al punto che le identità si possono passare, si confondono, sono tutto uno. «Nessuno fa caso a un rider , se vedono un nero in bici che consegna è del tutto normale» gli dice l’amico.

Tangshir non ha paura della durezza che è in tutto questo, anzi cerca di restituirla fuori dalle consolazioni. Issa non è un eroe «buono» ma qualcuno che ha imparato in fretta il meccanismo di solitudine e di cinismo, e la consapevolezza di un anonimato esistenziale – lo stesso che nelle app – che lo fa diventare Issa o Mario o chiunque altri nell’indifferenza di una consuetudine che troppo spesso rende la disumanizzazione parte del tutto «ovvia» del quotidiano.

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