«Il cinema dedicato al Nuovo Testamento, è chiaro, è stato un cinema di mercato, a parte qualche rarissimo caso. Questo non è un film di mercato, e semmai lo dovesse diventare, sarebbe un esperimento totalmente involontario. È stato girato in quasi vent’anni quindi è qualcosa di fortemente anti-produttivo. Se uno gira un film in vent’anni è evidente che non lo fa per quel che ci guadagna. Se ci guadagnassi, saprei come spendere i soldi; se non ci guadagno, non me ne importa niente. Il cinema si fa per quando uno è morto; il cinema allunga la vita a chi, in vita, non ha fatto molto cinema.» E ancora: «bisogna dare una lezione a chi opera in modo sbagliato, una lezione morale, anche utilizzando un termine così brutale. Credo che un film su Cristo vada fatto in assenza di appoggio produttivo. Quindi qualsiasi film su Cristo – a parte quello di Pasolini, perché era una persona integerrima – che sia stato fatto con un appoggio produttivo e abbia creato un indotto economico preventivo, non consecutivo (come quello che potrebbe creare in maniera minima un film del genere se diventasse un fenomeno di culto, e potrebbe diventarlo), non è stato fatto per passione ma è stato fatto per interesse, credo. Sono un po’ radicale e magari mi sbaglierò ma se mi sbaglio, pazienza.» Così Antonio Rezza, nel presentare il suo nuovo film Il Cristo in gola, personalissima rivisitazione della storia evangelica di Gesù.

Chi conosce le opere audiovisive che nel corso degli anni Rezza ha realizzato insieme a Flavia Mastrella, riconoscerà sicuramente molti stilemi in Il Cristo in gola, come la predilezione per le inquadrature sghembe oppure il sistematico doppiaggio-sabotaggio dell’altro (la voce del performer, scrittore e artista che doppia altri corpi). Ma anche per i più aficionados, questo film dovrebbe apparire un po’ diverso, dal momento che sembra aggiungere qualcosa che non si era visto in altri lavori audiovisivi, forse solo presagito nella libertà anarchica del precedente lungometraggio, Samp: un cortocircuito perfetto tra intenzioni d’autore ed esigenze d’attore. Si tratta di qualcosa a cui fa riferimento lo stesso Rezza nei materiali informativi di accompagnamento al film: «Il film è filologico fin quando lo dirigo: Maria che partorisce, Giuseppe che sonnecchia, l’Arcangelo proclama, Erode manomette, Battista che sciacquetta. Il film è filologico fin quando lo dirigo. Ma quando mi dirigo mi scappa dalle mani perché io, oltre a quella di Dio, non riconosco neppure la parola mia».

Al di là dei meri piaceri o dispiaceri estetici che l’opera può suscitare, il «farsi scappare dalle mani il film» è quanto fa di Il Cristo in gola qualcosa di automaticamente più interessante della stragrande maggioranza di tante produzioni d’autore ottime, ben girate, montate, recitate, e quindi, in definitiva, portatrici di una continua mercificazione dell’immagine. A questo proposito, vale la pena soffermarsi su come Rezza sviluppa tale perdita di controllo.

Come detto dallo stesso performer–autore, il film segue sostanzialmente la «storia» prima dell’apparizione di Cristo. Ma come la segue? Si riconosce una linearità dello sviluppo nella relazione tra Giuseppe e Maria, ma nello stesso tempo, non mancano invenzioni visive fulminee, apparentemente dissonanti eppure incredibilmente calzanti e perfettamente integrate nel film. Due su tutte: i titoli di testa, con la moltiplicazioni delle croci; la strage degli innocenti, dove volano bambolotti (il solo fatto di concepire qualcosa del genere fa capire come Rezza sia in grado di intuire come la grande arte sia, molto spesso, un discorso dove genialità e stupidità possono essere due facce della stessa medaglia, andando oltre in entrambi i due casi). Quando invece il Cristo appare, tutto comincia a cambiare. Il tono destrutturato degli inizi tende a prendere la forma di un progressivo dis-adattamento. L’Imitatio Christi del nostro procede per afasia della parola: come dice il titolo del film, tutto è in gola. Gesù mugugna, urla, emette vocalizzi: non parla, oppure – se si vuole – canta parole incomprensibili. Ma questo è quanto basta affinché la Storia si compia e i miracoli, come da copione, accadano. E però il vero miracolo, per così dire, è che l’agire-patire del Cristo, una volta in scena, inizi a far girare a vuoto la narrazione, minando momenti topici per eccellenza (per esempio l’ultima cena, che affonda), oppure addirittura contrastando quelli che sarebbero gli esiti della vicenda. Oltre alla mancanza di parola (logica), il Cristo dis-adattato di Rezza è tale anche per via di una gesticolazione tutt’altro che ieratica, dove le pose iconografiche tipiche sono giocoforza forzate e servono solo come momenti che ci ricordano come anche per il figlio di Dio, nella sua storicità, possa essere esistita una deformazione professionale.

Nel complesso, si potrebbe parlare di un corpo – quello di Rezza-Cristo – in un certo senso «diabolico»: non per qualche recondita blasfemia, ma proprio perché capace di fare quello che l’etimologia del termine suggerirebbe. E cioè dividere, separare le cose, materia e senso, e con questo portare tutto, almeno un po’, alla deriva. Ovvero il contrario di ciò che è simbolico, cioè di quanto unisce. Se quindi l’essere corpo può scompaginare un ordine precostituito, può anche rivoltarsi contro determinate imposizioni, combattendole o separandosi da queste. Tutto questo significa sottrazione del personaggio alla propria storia: un tema, se si vuole, caratteristico di molte avanguardie, soprattutto teatrali. Riprenderlo in forma cinematografica fa solo onore a Rezza, visto che un approccio del genere permetterebbe di decostruire la rappresentazione in esame per rendere palese come qualsiasi autorialità – quella del testo originario, quella del cineasta – possa essere sinonimo di autorità. In fin dei conti, Rezza compie qualcosa che si potrebbe spiegare «parafrasando» una celebre formula: ogni mezzo per disfare la volontà divina.