Come il pane anche il vino fece la sua parte quella sera all’imbrunire. Non venne spezzato perché il vino si curva ma non si spacca, è più adatto al compromesso, non fa leveci della fame, lavora ai bordi della socializzazione e donaspesso solitudine. Ma del vino versato per voi e per quasi tutti durante la remissione dei peccati, non è mai stato chiarito se contenesse o no i solfiti, i nemici del bevitore moderato e incompetente. Ho del vino un’immagine opposta, mi piace quel senso di distacco che consente, ma detesto il dolore alla testa che mi fa, dopo mezz’ora appena che ho bevuto, in basso a sinistra, lì dove solo la cervicale si è azzardata.

Vino e cervicale si toccano in un unico punto, come le dita della Cappella Sistina, le dolenze sono simili se appartenenti allo stesso occipite e si lasciano alle spalle lo strazio del giorno appena vissuto. Non ho mai trincato assai perché non mi so ben regolare e quindi è bastato vomitare qualche volta da più giovane per capire che non era il mio ingrediente prediletto. Preferisco il fumo, sono come Frank Zappa salutista tabagista. Il fumo rituale però, quello legato a momenti di grazia. Per il vino ho dovuto scegliere tra l’abolizione progressiva e la dimensione di abbandono che si ottiene non eccedendo il penultimo bicchiere.

A me basterebbe quello, ma per colpa dei solfiti non posso lasciarmi andare all’anticamera dell’ubriachezza. Né tantomeno riesco a decantare lo stato psicologico sospeso e defilato che anticipa la nausea o il mal di testa. Il potere amministrativo pur tuttavia decide che si può bere per allontanare o anestetizzare il problema impellente.
Quale sostanza più a buon mercato per drogare un popolo? Quante cirrosi vengono considerate meno gravi di una neoplasia da tabacco? Eppur si muore anche con il vino, questione di misura, e se la misura zoppica, l’epatite va a cavallo. I solfiti servono a conservare il vino nella sua aggregazione iniziale, lo tengono in tensione, ma ne alterano il sapore e anche le finalità.

Ho cercato bottiglie senza solfiti ma se ne trovano con difficoltà. Il rosso poi mi lacera le tempie, non è un gran problema, posso anche non bere, gli assilli li preferisco intatti, non alleggeriti dall’euforia; mi fa però imbizzarrire che qualcuno decida cosa fa male e cosa no. Il problema è sempre quello, c’è chi stabilisce cosa deve nuocere e cosa va bandito. Nessuno può dimostrare con esattezza che la combustione sia più insidiosa della sbronza, e difatti sono pratiche entrambe legali e a buon mercato. Ma se poi il fumo viene arricchito da additivi inebrianti, lì scatta l’illegalità, in base chiaramente a un ragionamento fatto con il profitto spianato e non con l’esattezza della diagnosi.

Non c’è un solo specialista che possa definire il vino meno dannoso del fumo e attenzione, io fumo in modo ascetico, non per essere sconvolto, detesto le alterazioni di una mente già manipolata. Se fumo lo faccio per propiziare gli eventi, per mettermi in sintonia morale con l’invenzione, fumo come i pellerossa, che con il calumet si accattivavano le gesta degli dei, ignoro la pace ma ne godo i privilegi. Non è una mutazione chimica, che aborrisco in ogni senso, ma un accordo passionale che lascia invariate le mie percezioni.

Senza neppure farmi indolenzire la corteccia cerebrale. È bene evitare qualsiasi sostanza resa volutamente illecita per paralizzare furtivamente l’ambizione dei più dotati, che una volta in balia diventano come gli ubriaconi, persone dallo sguardo malinconico rese inoffensive dall’uva di stato. Nella mia esperienza non ho mai visto un essere umano completamente neutralizzato dal fumo di aromi leggeri, mentre ne ho visti tanti interdetti dall’alcol. Crea meno dipendenza inspirare rispetto al bicchiere, ed è forse per questo che il male alla testa che il vino mi fa costituisce l’avvisaglia della sostanza sbagliata. Si tratta di una riflessione personale, la maggior parte di coloro che fumano non sa associare il gesto al momento, non sono qui a dire che bisogna fumare o che tutto vada legalizzato. È evidente che se il vino è lecito dovrebbe essere legittimo anche il resto, ma io non mi perdo in queste miserie.

Chi dispone deve avere sempre la possibilità di mentire e quindi va bene il proibizionismo di massa. Quello che non va bene è il proibizionismo nei miei confronti che considero lesa maestà. Io come singolo merito rispetto e tolleranza, se mi fai bere sapendo che se bevo troppo mi rompo il fegato, allora fammi fumare come voglio perché ai bronchi, preferisco la spavalderia: tutto va vietato ma non quello che io desidero, almeno in assenza di condivisione.

I miei genitori si dissetano con un vino inconcepibile, molto forte, si chiama Cacchione ed è originario del mio paese, la città di Nettuno, luogo da me cancellato nell’esercizio della sua amministrazione dopo che ci ha tolto la ex «Divina Provvidenza», il posto dove lavoravo da trentacinque anni.

Ebbene a Nettuno c’è una casa vinicola che ha lo stesso nome dell’edificio da cui siamo stati sloggiati e ce n’è un’altra che si chiama Cantina Bacco dove i miei genitori acquistano il Cacchione. Quello rosso è una sorta di mousse per quanto è denso e corposo, fa fatica a scivolare nel bicchiere, sembra alticcio per come procede a singhiozzo, è talmente forte che ti stordisce in pochi sorsi, non ho mai capito se gli scatti d’ira di mio padre quando perde a carte siano dovuti alla sconfitta o al Cacchione che fermenta dentro. Come possano i miei genitori fare uso di un condimento che a me impedisce quasi di alzarmi dalla sedia resta un mistero invalicabile, e non è che siano alcolizzati, sono normalissimi genitori di vecchia generazione che credono di aver vissuto in modo esatto. Come me e come quelli che verranno.

Ripensando al passato ho il ricordo delle fraschette dove i vecchi della mia infanzia andavano a rovinarsi gli ultimi mesi di vita, delle sigarette buttate a terra da uno di questi viziosi, di me che scavalcavo il muretto di casa e mi fermavo a spippacchiare gli avanzi sull’asfalto rovente. Che schifo, non lo farei mai più, mettere in bocca la cicca gettata da un vecchio che scatarrava prima, andava a bere dopo e tornava a casa barcollante infine. Però io avevo già scelto il fumo rispetto all’alcol. Inalavo le ultime boccate di chi brindava e ciondolava. Io bambino fumando saltellavo, lui, anziano alle ultime uscite, non andava neanche dritto. E tutti sempre a dire il fumo è nocivo. Esistono grandi intenditori di vino e trovo l’arte della degustazione un esercizio affascinante.

Ma non mi si venga a raccontare che il vino è conforme per fatalità. Il vino è legale perché la tradizione insegna che si è sempre bevuto. Fa bene un bicchiere ma uccide il vizio secolare. Al mosto preferisco la pistola, più rapida e meno moralista. Nel vino c’è sempre quel tormento e quel ricordo che portano lo sguardo a farsi languido e a rimpiangere la vita, gli amori, tutti i fallimenti. Si beve per dimenticare, ma io fumo per restare sveglio. Ectoplasmi agli ultimi strilli, hanno dato le dimissioni dalla vita e affogano il lamento tracannando lo scorrere del tempo. Scola il giorno come il vino sulle ferite di quest’umanità che mai mi intenerisce.

Gli occhi lucidi e il pensiero a quel che è stato mi fanno fuggire dall’alcol e dal ricordo, il vino si associa meglio al sentimento fatuo, al paternalismo del fine settimana, alla commozione, che sono poi tutte le volte in cui l’ardimento ha fallito. Non mi piace il vino quando desta i giorni trascorsi e li rende struggenti. Del vino ho rispetto quando alleggerisce il presente, ma disdegno il turbamento che del passato mi fa. Non bevo perché fumo. E la pistola in questo è più sincera. Una volta scarica torna nel silenzio. E poi dopo sparato, la pistola fuma