Antonio Rezza, carte «da giogo» e il progetto Encefalon
Intervista Presentazione al Salone del libro di Torino il 17 ottobre e a Lucca Comics il 31 per la nuova idea del performer «autoreggente»
Intervista Presentazione al Salone del libro di Torino il 17 ottobre e a Lucca Comics il 31 per la nuova idea del performer «autoreggente»
Il mare è oltre la sala degli specchi, si vede dalla finestra al piano di sopra – un quadro animato anche quando l’orizzonte è grigio e carico di pioggia – nello spazio di sconfinamento che ospita dal 2019 la creatività del performer-autore Antonio Rezza (Novara 1965) e dell’artista-autrice Flavia Mastrella (Anzio 1960).
Subito dopo esser stato insignito del Leone d’oro alla carriera alla Biennale Teatro di Venezia, il duo artistico RezzaMastrella è stato sfrattato dal comune di Nettuno dal complesso dell’ex ospedale della Divina Provvidenza che ospitava il loro laboratorio teatrale dalla seconda metà degli anni ’80. In quell’officina di grande fermento artistico completamente autogestita sono nate anche tredici opere teatrali (da Pitecus a Anelante) lungometraggi, cortometraggi e tra i testi letterari Clamori al vento. L’arte, la vita, i miracoli (2014).
«L’alternativa era affittare o comprare un capannone fuori mano, ma ci siamo attrezzati qui dentro – è la casa dei genitori di Flavia, costruita dal padre che era architetto – che, complice la pandemia, è diventato un posto con un’energia incredibile. Qui ho realizzato il disco Groppo e Galoppo. Il Pianto del Centauro e il progetto Encefalon. Le carte da giogo (La nave di Teseo, 2021), grazie a Elisabetta Sgarbi che ha accolto l’idea e Stefano Losani per la preziosa collaborazione. In questo ambiente facciamo anche le prove e ho scritto i racconti che stanno uscendo ogni tanto con L’Espresso», afferma Rezza.
Due porte di legno poggiate sulla parete lunga sono un elemento del nuovo spettacolo di cui sono in programma le prove aperte al teatro Vascello di Roma. «È talmente bello fare le prove che potrei anche non andare in scena. Le prove in solitudine non hanno senso. La gente che guarda mi permette di mettere in moto il corpo anche al livello di sforzo fisico, di frammentazione del movimento. Si cristallizzano solo le parti migliori, ad un certo punto l’improvvisazione finisce e bisogna provare quel gesto centinaia di volte per farlo diventare automatico».
Durante il lockdown davanti allo specchio verticale è nata la serie di fotografie a colori con cui hai realizzato Encefalon…
Le carte sono nate qui per un incidente di percorso, come teorizzato nel bugiardino che le accompagna. Dalla Divina Provvidenza non abbiamo tolto uno spillo e tutti gli specchi di vetro, che usiamo per controllare i movimenti, sono rimasti nella sala alta sei metri dove facevamo le prove. Qui abbiamo messo degli specchi teneri montandoli con le viti a pressione, in corrispondenza delle quali si sono generate delle piccole aberrazioni. Sbirciando la mia immagine riflessa mi sono accorto che si formavano delle forme inconsuete. Non è una novità, pensando all’effetto degli specchi deformanti del luna park, ma quando ho tolto i vestiti ho scoperto un altro universo: la pelle. Durante la segregazione lo specchio è stato suonato come uno strumento, in questo sta l’invenzione. Nel primo lockdown ho realizzato le immagini in un’animazione di cavalli per il disco Groppo e Galoppo. Il Pianto del Centauro che è stato presentato a Musicultura, poi però la sua realizzazione si è fermata. Invece nel secondo lockdown, tra febbraio e giugno di quest’anno, ho fatto le carte da giogo che sono uscite come allegato con Linus e si troveranno in libreria. Il mio sogno è che escano anche in edicola come i Pokemon, ecco perché le ho chiamate Encefalon. Ho realizzato da solo le immagini con l’autoscatto. In alcune, guardando bene, si vede la mia immagine piccolissima mentre fotografo. Solo in alcune sono presenti altre persone con cui collaboro e anche mio figlio Giordano che ha 12 anni.
Per un attore, che più di ogni altro individuo è abituato a indossare maschere, che cosa ha voluto dire mettersi a nudo davanti allo specchio e alla fotocamera?
Non sono un attore, sono un performer ma visto che oggi tutti si definiscono performer sono Antonio Rezza e basta. Posso farti un pezzo di spettacolo anche adesso, non serve che mi concentri. È un gesto per me. La fotocamera era il telefono, quindi non è stato difficile mettermi comodo, soprattutto perché spesso durante gli spettacoli mi spoglio. Ho dimestichezza con il nudo. Mi diverte, a parte la prima volta che lo feci avendo qualche problema di timidezza, poi ho scoperto che è una cosa normale. Nasciamo nudi, no?
Quindi dalla «casualità» dello specchio è nata questa particolare relazione tra immagine e corpo?
Conoscevo l’effetto dello specchio perché avevo già fatto l’animazione dei cavalli per il disco. Un minuto e mezzo di ripresa in cui con il mio corpo è uscito fuori il movimento di un cavallo, anzi di un centauro. Poi ho deciso di concentrarmi sulle foto, posizionando le luci e studiando le angolazioni, con minimi cambiamenti si ottengono forme diverse. Ci sono circa 6mila istantanee che ho scattato con il telefono. C’è anche una serie a «luci rosse» in cui sono sempre solo, con l’organo in semi erezione. Ho provato ad usare una macchina fotografica professionale, ma è ingombrante, non sparisce del tutto, impedisce i movimenti e non mette a fuoco il tipo di superficie tenera dello specchio. La cosa che mi inorgoglisce è che anche persone di autorevole intelligenza non credano che le immagini non siano post prodotte. Quella fotografia è contestuale, è esattamente l’immagine che vedevo. Però mi fa piacere che non venga accettato il fatto che esista ancora l’invenzione, perché significa che si lavora bene. L’unico effetto in post produzione è stato eliminare la stanza dal contesto, perché gli scatti sono stati fatti a una certa distanza, non vicino alla superficie riflettente.
C’è anche un che di liberatorio in quest’operazione performativa?
Sicuramente! Avviene ogni volta che ti chiudi in un posto e capisci che sei «autoreggente» e ogni minuto della vita si libera da ciò che la circonda.
Tra i personaggi compaiono Yuri Gagarin, Confucio, Napoleone a Sant’Elena… ce n’è uno in cui ti rispecchi?
C’è pure Winston Churchill… mi piace tanto il lottatore, il malfattore, il pizzaiolo… in fondo mi piacciono tutte le carte. È bello perché rinunci all’identità. Non devi far conoscere la faccia che hai, soltanto ciò che fai.
Parliamo del titolo…
Il titolo è a tentativi. Ne ho scritti tanti, poi ho scelto quello che mi sembrava non il più bello ma il meno peggio. Il titolo è la prima dichiarazione d’ipocrisia. Non può esserci titolo che renda giustizia all’opera, però Encefalon mi piaceva perché in un momento in cui c’è tanta penuria di amor proprio mi sembrava un monito preciso.
C’è sempre stata attenzione per il mezzo e il linguaggio fotografico in relazione alla performance?
Il rapporto con Flavia nasce nel 1987 con I Visi…Goti, un progetto fotografico che è stato esposto a Romanello spazio Il Fotogramma di Giovanni Semerano. Lei aveva creato gli habitat intorno alle espressioni che facevo, coadiuvato da Massimo Camilli, mentre le fotografie erano di Angelo Fratini. Lo spettacolo Fotofinish (2003), poi, è la storia di un fotografo che si immortala per sentirsi meno solo, mentre nel romanzo Credo in un solo oblio (2007) un uomo va a farsi una fototessera ma si sposta al momento dello scatto, quindi viene mosso. Per colpa di queste movenze sbagliate esce dalla sua fotografia e entra in tutte quelle dell’umanità: ovunque ci sia una fotografia c’è lui che cerca di uscire da una realtà che non è la sua per rientrare nella propria.
La fotografia come fuga o appropriazione dell’identità?
Per me l’identità è un grosso problema che è diventato gestionale, non più solo artistico o umano. Non fa più riferimento a una difficoltà identitaria è proprio la schizofrenia del pensare a te stesso che ti porta a dividere la giornata come se fossi due persone e questo, a sua volta, porta a un non riconoscimento né nell’uno né nell’altro, o comunque leggermente tardivo rispetto a quando dovrebbe avvenire cioè da quando ti svegli a quando vai a dormire. Non è questione di autarchia. Posso dire di essere veramente me stesso – la persona che vorrei essere – due volte alla settimana. Due ore e mezzo il martedì e due ore e mezzo il venerdì, quando facciamo le prove aperte. Le prove sono come il jazz, ci sono dei flussi di coscienza, un’improvvisazione continua: escono fuori delle cose anche sorprendenti. Ma io non riuscirò mai ad essere per sempre la persona di quei due giorni e questa è una grande frustrazione.
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