Antonio Prete, visioni impresse sulla pelle dei ricordi
Poeti italiani Nel suo ultimo libro, «Convito delle stagioni», Antonio Prete sfida i versi ad accogliere il vuoto temporale: perché si faccia nostro compagno di viaggio e non solo muto e implacabile testimone: da Einaudi
Poeti italiani Nel suo ultimo libro, «Convito delle stagioni», Antonio Prete sfida i versi ad accogliere il vuoto temporale: perché si faccia nostro compagno di viaggio e non solo muto e implacabile testimone: da Einaudi
In alcuni suoi versi, Yves Bonnefoy si augurava di imbattersi in un libro che avesse coscienza del proprio e del nostro deteriorarsi: «Tu invecchierai […] / Riprenderai il libro alla pagina aperta, / Dirai, Erano dunque le ultime parole oscure». Righe in cui leggere nelle ombre di una memoria salvata, ma a brandelli, la conferma del vuoto di cui è costituita l’esistenza di ciascun individuo, sottoposta allo scacco del tempo e della morte. Critico, scrittore e poeta tra i maggiori, Antonio Prete ha sfidato la sua ultima raccolta di versi, Convito delle stagioni (Einaudi, pp. 144, € 12,00) ad accogliere il vuoto temporale: perché sia nostro compagno di viaggio e non solo muto e implacabile testimone. E ha dunque trovato in sé un libro che gli permette di rendere chiare quelle che erano parole oscure, di far sì che il tempo immaginato e sognato si sciolga e si riveli come miseramente trascorso. Scrive dunque in Metamorfosi, prima poesia della raccolta: «Non c’è pensiero o affetto / che si perda nel nulla. / Amori e turbamenti fluttuano nell’aria, / sono nube, pulviscolo di luce. / Nello schiudersi del fiore, o nel formarsi di una stella, / quel che accade ha lo stesso respiro / del tuo desiderio. / Niente muore davvero».
Le lettere, i versi, le poesie del libro registrano un passato di esperienze e vissuti, impastati di morti desideri o speranze, un passato che si disfa nel pacato delirio di ogni rispecchiamento: un bacio antico di un volto dimenticato diventa, per esempio, una nube; e, dunque, non appartiene più inesorabilmente al passato, bensì alle metamorfosi del presente. Il poeta accetta di muoversi su un equilibrio quanto mai arduo, dandosi il compito di far germinare la poesia dal dubbio: se tutto è, come nell’ultima strofa di Metamorfosi, «solo il sogno / di una metamorfosi», allora l’orizzonte verso il quale si avventura la parola poetica non potrà che essere la presa di coscienza del vuoto.
Avendo memoria della Ginestra leopardiana, incarnazione dell’ardente disincanto della poesia, Antonio Prete si misura con l’impresa di far fluttuare il suo mondo visionario sulla pelle del proprio ricordo, riandando alle sue stagioni di ritrovate assenze. In quegli istanti di agnizione, chi parla può dire di sé: «Poi sono ancora solo, / in un punto che non ha riva né scoglio, / un punto privo di forma e di luce, / sono nel giorno senza tempo della tua storia», versi che Prete pone a sigillo della poesia Nel giorno senza tempo della tua assenza.
Un’intimità radicale sembra disperdere fino a annichilirlo l’Io del poeta, e per suo naturale riflesso, la Storia che gli umani pensano e inventano. Eppure, qui, il miracolo della poesia – ovvero il riscatto che offre alla nostra finitudine – si consuma non più in una landa desolata, come in Leopardi (e poi, fra gli altri, in Eliot), né si cristallizza in una pietra dura come in Bonnefoy, ma si concretizza nella evanescenza di una mutazione perpetua, che nel riproporre gli oggetti di antichi ricordi è segnata dalla coscienza della parola, compagna della constatazione di una fine immanente a quella non presenza che è intrinseca a ogni metamorfosi. Nelle pagine saggistiche di Prete ritorna spesso, non a caso, uno dei pensieri di Baudelaire: la poesia è vera ma in un altro mondo. La traduzione in versi suona così, come l’ombra di una speranza che risiede nelle parole, pronta a manifestarsi se esse vengono disposte nell’ordine giusto, in una corrispondenza magica, fuori dall’ordinario: «Attendono, le parole, in silenzio, / che appaia, prossima, la terra dove / la lingua è vento, fiume, albero, stella. / Vi abita, dicono, la poesia». Di questa tensione verso una verità inarrivabile anche con i mezzi della poesia, ma verso cui si è indefettibilmente in cammino, almeno in quanto poeti, è tessuto questo personalissimo «livre, pour vieillir» di Antonio Prete: «Il libro che non scriverò mai / ha una sua lingua innamorata di ogni / altra lingua. Nella sua punteggiatura / c’è il disegno delle costellazioni. / “Disponi ogni parola che tu scrivi / all’ombra di quel libro”, mi dice / una voce che viene ora da un libro».
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