Cruciale, nella prosa di Antonio Prete, non è tanto o non solo la limpidezza del dettato, la nettezza del dire oppure quel procedere per strati di essenziali materiali sintattici senza mai concedere nulla che non risulti equipollente al significato dell’intera e finale costruzione. Decisivo e di risoluta e assoluta modernità è piuttosto il carattere ibrido di una prosa che non smette mai, con ferrea costanza e senza deflettere, anche nei momenti che paiono di maggiore abbandono, di andare verso la teoria (si pensa, parafrasandola, all’efficace e fortunata formula di Alfonso Berardinelli riguardo alla poesia che va verso la prosa) ovvero verso il saggio. Così è avvenuto a partire da L’imperfezione della luna (2000) e poi, a seguire, in Trenta gradi all’ombra (’04) e in Torre saracena. Viaggio sentimentale nel Salento (’18) e adesso, in maniera se possibile più esplicita, nel nuovo Album di un’infanzia nel Salento (Bollati Boringhieri «Nuova Cultura», pp. 143, euro 15,00), opera che ritorna nel luogo e nello spazio da cui l’autore non si è mai poeticamente allontanato, dunque nella zona apicale di una ispirazione senza fine, come d’altra parte mostrano i suoi volumi di versi, vale a dire Menhir (2007), Se la pietra fiorisce (’12) e Tutto è sempre ora (’19). (Ma inoltre si è notato un medesimo slittamento in molti scritti di carattere saggistico, ad esempio, e per citare un titolo di tre decenni addietro, si pensi a Prosodia della natura. Frammenti di una fisica poetica e poi alle appassionate indagini dentro e intorno alla nostalgia, alla lontananza, alla compassione, all’interiorità e al sentimento amoroso).

E dunque qui, in Album, l’infanzia e la sua teoria procedono insieme lungo questi quadri che sono narrazione e pensiero in atto, memoria e sua esegesi, luce dell’origine e postrema riflessione sul tempo che si è cancellato e che tuttavia rimane incancellabile, tempesta di immagini, di quadri, di figure, di silhouettes còlte e disegnate non nel mentre ma dopo tutto. L’io e il tu, intanto. Scrive Prete: «Se penso a quel tu – ma ecco che ci penso tornando a dire io, perché in fondo è l’io del ricordo che si impone scrivendo – lo vedo, quel tu, da questa lontananza, in mezzo a figure che appaiono per un istante con qualche nitore e subito vengono coperte da un velo che ne dissipa i lineamenti e ne dissolve il disegno». C’è – né poteva non darsi – uno iato e una scissura tra quel bambino e il soggetto maturo e sapiente che oggi scrive in prima persona, rimembrando tutta quella luce e quel mare, «la duna e l’azzurro», vale a dire «la forma salentina del paradiso infantile». Tutto torna adesso, dunque, tra luce e ombra, tra miele e lutto, nella pena struggente per le private perdite (passa al pari di una percussiva assenza-presenza l’immagine delle persone care che non ci sono più, ma anche quella di altri bambini sconosciuti, la cui infanzia fu troncata dalla deportazione nei campi di sterminio). La luce serale e notturna dei bengala che annunciavano i bombardamenti aerei e quella, naturale e sorgiva, che da sempre ha rappresentato lo stigma felice e maledetto del Sud, con le sue feste, le bande, i giochi nella polvere e insieme, piaga mai qui rimossa, la fatica, la miseria e lo sfruttamento dei contadini braccianti. E l’onda lunga, spietata dell’emigrazione verso la Germania, la Svizzera, la Francia, le Americhe (c’erano i francobolli staccati dalle lettere di chi era partito e raccolti dal bambino a testimoniarlo nel mentre si andava formando in lui una geografia fantastica).

«Povertà, e luminarie» si intitola un capitolo di questo Album, e si tratta di un ossimoro, di una sineciosi che attraversa tutto il libro di Prete. Eccone un esempio: «Giostra del dolore e della povertà. Ripensare alle stagioni del dopoguerra, per chi fu, allora, bambino nel Sud è rivedere nella mente vicoli bui con donne e bambini vestiti di stracci, stanze che sono tuguri, compagni di giochi macilenti, figure, nelle strade, di mutilati e di storpi. Ed è riascoltare voci che raccontano di malattie o dicono nomi di scomparsi, compresi quelli che la guerra non ha restituito al paese». Ma pure, nei giorni di festa, quando in paese (Copertino, la patria del Santo Volante, dove l’autore è nato nel 1939) si accendevano i fuochi votivi, quegli stessi volti «avevano un velo leggero di letizia che sospendeva ogni altra condizione: il tempo della festa irrompeva nel cammino dei giorni come il bagliore fugace di un mondo bellissimo, e negato».
Nulla di consolatorio, e nemmeno di crepuscolare, c’è in questo Album di un’infanzia nel Salento. Piuttosto la sua funzione è altra, apertamente dichiarata da Antonio Prete: «Raccontare quel che è stato è dare presenza linguistica a un’assenza». Che poi è, o dovrebbe essere, una delle funzioni precipue della letteratura.