Antonio Perazzi e il flusso della vegetazione
Viride «I giardini invisibili», da Utet
Viride «I giardini invisibili», da Utet
Rivendicando in premessa l’irriducibilità di un rapporto tutto personale con i luoghi e l’improponibilità di regole universali per quanto attiene l’arte dei giardini, il paesaggista Antonio Perazzi, paradossalmente, propone poi invece un Manifesto. Un Manifesto botanico, come precisa il sottotitolo del suo volume intitolato a I giardini invisibili (Utet, pp. 191, € 16.00).
Qui, con andamento apodittico e toni a tratti perentori, in una successione di affermazioni scandite contro quei pregiudizi e luoghi comuni dove così spesso si corre il rischio di scivolare, normativamente, sarà proprio la centralità del protagonismo in giardino delle piante (e di insetti, e vari animali di passaggio) e l’opportunità di frequentare da lì una natura sempre più residuale, fino a trarne una rinnovata dimestichezza, a emergere per costituire un’indicazione, anche metodologica.
Per assumere, complice, la vegetazione come una opportunità progettuale, così da ridurre la deriva diffusa verso un giardino prono all’artificio purché sia, contemperare l’ego sempre in agguato di una creatività fatta di allestimenti geometrici, arredi e accessori amorfi, dove le piante son spesso ricomprese, soltanto e se in una forma preordinata, occorre ribaltare lo sguardo prevalente che solitamente riserviamo a una natura rispetto alla quale ci pensiamo esterni.
Per praticare esercizi di lettura, anche botanica, dell’ambiente – decrittando consociazioni spontanee che si adattano alle diverse condizioni. In un’attitudine che ci consenta di comprendere meglio il carattere dei luoghi, percepire il flusso biologico del territorio, intuirne i tempi di sviluppo nel paesaggio.
Dinamiche che, poi, nel processo artificiale e nella pratica progettuale che serve a dar origine al giardino, occorre rivelare e magari rilevare. Assecondando l’energia della natura spontanea per conferirgli forma e senso, modulando il dialogo continuo tra soggetti vivi, temporalità diverse, metamorfosi.
Specialmente, nel contesto di trasformazioni incessanti dell’irrequieta flora mediterranea. Fonte di ispirazione anche nella gestione delle risorse di acqua e suolo, organismo vivo, maestra di adattamento in un apparente disordine biologico proprio di un evolvere continuo del paesaggio. A partire dall’irrefrenabile vigoria delle piante annuali, intese ad andare a seme, a quelle mediterranee, a crescita intermittente, e magari doppia fioritura, a quelle, ancora, che al nord vivono brevi stagioni calde e hanno perciò una velocità di sviluppo accelerata.
Spesso, difatti, «il progetto di un giardino consiste nel dare forma al tempo» piuttosto che non alle cose, ricorda Perazzi. Momento di contatto tra natura pensata e natura interpretata, sintesi tanto di potenzialità inespresse dei luoghi quanto di necessità e usi sociali, nonché della dimensione estetica, il giardino così concepito, oltre a esser tramite e occasione per recuperare un qualche perduto senso di appartenenza rispetto al mondo circostante, introduce a una consapevolezza ecologica, che si dilata al paesaggio. Una pratica e frequentazione del giardino a partire dalle piante, una botanica per paesaggisti, percorsa, oltreché come approccio ed elemento ispiratore, anche come strumento operativo nella realizzazione di un giardino accogliente, tollerante. Che si prende cura di luoghi e piante, come noi, tendenzialmente cosmopolite, per farne un ponte nel dialogo tra artificiale e naturale.
Sapere allora vedere la bellezza che risiede nell’ordinario e nell’imprevisto dei molti giardini invisibili di cui è pieno il paesaggio naturale, affilarsi a riconoscerne tratti e sviluppi, va assieme alla capacità di metterli in luce, dar loro un nome e farne un’indicazione per un «paesaggismo ecosistemico», dove le molte interazioni tra dimensione economico funzionale, estetica ed etica possano coabitare.
I consigli di mema
Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento