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Antonio Pappano, spartito del futuro

Antonio Pappano, spartito del futuro

Intervista Il direttore d'orchestra ritorna sui diciotto anni alla guida della Santa Cecilia e guarda avanti: «Se si cattura l’interesse dell’orchestra per pezzi contemporanei, questo passa al pubblico»

Pubblicato più di un anno faEdizione del 22 aprile 2023

Il rito di passaggio si è consumato con tutti i crismi, in un tripudio di applausi, occhi lucidi, l’orchestra che suona Land of Hope and Glory di Elgar, foto, saluti, fiori. Lo scorso 15 aprile, Antonio Pappano con l’ultimo di tre concerti fra i più riusciti e trascinanti diretti ultimamente, un trittico Ambrosini, Strauss e Sostakovic, ha preso congedo dopo diciotto stagioni dall’orchestra di Santa Cecilia. Sarà Daniel Harding a succedergli come direttore musicale dalla stagione 2024. Pappano in questi anni ha mantenuto una frenetica doppia vita: per il pubblico italiano, specie a Roma, era il direttore amatissimo di Santa Cecilia. A Londra la guida carismatica del Royal Opera House, che lascerà nel 2024, dopo vent’anni, per entrare in carica come direttore musicale della London Symphony Orchestra. Eppure la stagione del Covent Garden vede ancora Pappano in prima fila, fra l’altro anche con un nuovo Anello del Nibelungo di Wagner e con alcuni debutti. Lo abbiamo incontrato alla vigilia del suo commiato.

C’erano ancora titoli rimasti inesplorati?
A Londra mi aspettano tre titoli di seguito: Wozzeck di Berg, già in prova, Il Trovatore e Werther di Massenet. Quest’anno ho programmato due titoli diretti finora solo in disco: dopo le recite di Turandot è in arrivo anche il Trovatore di Verdi. Per me è stimolante, perché in disco sono molto diverso rispetto al risultato in teatro. L’idea di riprendere la Tetralogia di Wagner nasce invece dal mio desiderio di lavorare con il regista australiano Barrie Kosky, una delle personalità più importanti del teatro del nostro tempo. Il prossimo settembre iniziamo con l’Oro del Reno, andremo avanti per altri tre anni, così manterrò anche il legame con il Covent Garden. I cicli completi però toccano a Jakub Hruša, che mi succederà sul podio a Londra.

Perché così tante differenze fra le esecuzioni dal vivo e in disco?
Quando sei in studio fai di tutto per avvicinarti all’esperienza del teatro, ma la situazione di per sé resta piuttosto artificiale. Una specie di laboratorio in cui però si può essere molto creativi, cosa che mi piace da morire. Registrando i dischi divento un po’ anche regista, seguo la post-produzione per rendere il risultato finale davvero spettacolare. In teatro non si possono mai ottenere i risultati acustici di un disco; in compenso tutto è più immediato, l’ispirazione dell’elemento visivo, l’entusiasmo del pubblico. E anch’io reagisco in modo totalmente diverso. In effetti penso di essere più veloce in recita e più lento nei dischi. In disco il suono ha più smalto, magari è più idealizzato, mentre dal vivo mi piacciono anche delle asperità più ruvide.

A proposito di dischi, il lascito discografico con Santa Cecilia fotografa una collaborazione che ha superato le aspettative.
È vero e ne vado fiero. Mi sembra ci sia una varietà di repertorio notevole, dal War Requiem di Britten alla Turandot, dal Guglielmo Tell di Rossini a Mahler e ancora Bernstein, Henze. Un risultato importante.

Nel programma di sala dell’ultimo concerto romano campeggiava la lista delle tante partiture dirette in questi diciotto anni: qualcosa che non è riuscito a realizzare?
Non abbastanza repertorio classico, Mozart e Haydn, ma non è sempre facile programmarlo con una grande orchestra sinfonica da impiegare. Almeno però ho diretto Bach. Poi sono riuscito a proporre tanto Bruckner e abbastanza Mahler. Curioso come in tournée abbiamo suonato dei pezzi mai proposti a Roma, come la Terza Sinfonia di Copland, la Terza di Enescu, Pelleas und Melisande di Schoenberg, che facemmo a Edimburgo. Nel complesso sono soddisfatto: sicuramente il braccio è migliorato e anche l’orecchio. Una maturazione sviluppata di pari passo con quella dell’orchestra, una sensazione appagante. Forse ho imparato anche a convincere l’orchestra a lavorare con entusiasmo sui pezzi contemporanei: catturare l’interesse dell’orchestra vuol dire convincere di più anche il pubblico in sala.

La London Symphony Orchestra è un’orchestra dalla tradizione e dal repertorio formidabile. Come imposterà il suo lavoro?
Come ho sempre fatto, alternerò il repertorio classico-romantico e le novità. Per me conta come esegui i programmi anche più di come li progetti. Sarò attento alla musica contemporanea ma anche a quella inglese, che a Roma non ho diretto molto. Faremo dei cicli delle sinfonie di Vaughan Williams, un disco della Prima Sinfonia di Walton e finalmente anche The Dream of Gerontius, il grande oratorio di Elgar. Non è musica sconosciuta ma da tempo non hanno un direttore che si dedichi con la mia intensità al repertorio inglese. Non dirigo la musica inglese per obbligo o per posa, ma perché la amo.

E con Santa Cecilia?
Nel 2024 verrò per preparare la Gioconda di Ponchielli e i concerti del Festival di Pasqua a Salisburgo. Nel 2025 ho solo una settimana, vorrei lasciare a Daniel Harding tempo e spazio per acclimatarsi. Per gli anni successivi vedremo.

Ci sono differenze sostanziali nel modo di lavorare con le orchestre britanniche?
A Londra tutto è molto più veloce. Hanno una sola data a disposizione e sono abituatissimi a leggere a prima vista dalla prima prova, quasi fosse il concerto. Santa Cecilia sotto questo profilo è migliorata in modo indescrivibile, anche se non ha quella prontezza innata. D’altro canto con le orchestre inglesi il lavoro sul suono è più elaborato, mentre a Roma c’è una spiccata creatività e un’attitudine naturale per i colori. Nella Turandot anche l’orchestra del Covent Garden ha reso dei colori smaglianti ma abbiamo impiegato tempo a trovarli. In tutti questi anni ho cercato di trasferire da una parte all’altra le diverse impostazioni: l’orecchio naturale per il suono italiano, che si è formato qui a Roma, e lo scatto, la concentrazione intensa nel lavoro tipica del sistema inglese.

L’altra grande differenza tra il sistema inglese e l’Italia sta nel finanziamento delle orchestre: anche questo sarà un cambiamento per lei?
In Italia, nonostante le difficoltà politico-sociali e i tagli la musica resta un elemento della vita del paese che merita il sostegno pubblico. In Gran Bretagna il nostro settore oggi è davvero deluso per il livello basso dei fondi pubblici: per il Covent Garden siamo sotto al 20% del nostro bilancio: può immaginare lo sforzo per reperire il resto dei fondi. In questa situazione i prezzi dei biglietti restano alti, con il risultato di non permettere il ricambio del pubblico. Intanto l’arte e la cultura continuano a essere il primo oggetto dei tagli. Temo che in futuro le difficoltà diventeranno davvero serie. Quel che possiamo fare a Londra è appoggiarci ai nostri sponsor e diventare più autonomi; ma al tempo stesso dobbiamo provare a lottare contro l’assenza di prospettiva dei nostri governi. London Simphony Orchestra e Royal Opera House sono due macchine da guerra sia per la qualità delle forze artistiche che per il lavoro dietro le quinte, con squadre eccezionali di persone creative e agguerrite.

Anche la risposta del pubblico è diversa. A Roma dopo la pandemia avete faticato a ritrovare la sala piena per tre concerti. E a Londra?
Sono paragoni difficili. A Londra ci sono molte orchestre residenti e tantissime orchestre estere ospiti, con una concorrenza tale da rendere impossibile più date dello stesso concerto: in occasioni speciali ce ne sono al massimo due. Però un programma nato per Londra si può replicare a Parigi o in tour in Gran Bretagna, la politica delle tournée è sensibilmente più complessa di quella che facciamo a Roma. Si viaggia tanto e continuamente, con vari programmi da ripetere in periodi diversi. Naturalmente con un impatto sui dischi dal vivo, perché abbiamo a disposizione soltanto le prove e una serata, magari un’eventuale sessione di correzioni. Tutto più veloce rispetto al ritmo cui ero abituato a Roma, dovrò riadattarmi.

Ha debuttato con la London Simphony nel 1996, da allora l’orchestra è cambiata molto?
Sono cambiati molto i musicisti e anche il personale. Resta la straordinaria energia che caratterizza la LSO, che sceglie solo artisti che dimostrino una personalità pronunciata: con loro non basta suonare bene, è sempre stato così. Infatti si prendono molto tempo per scegliere i musicisti, specie le prime parti. Ovviamente mi auguro di portare con me anche un po’ del pubblico dell’opera, ma la programmazione è del tutto diversa, devo studiarne ancora i meccanismi.

Il lavoro sull’inclusione, sulla diversità del pubblico su base culturale e sociale è un impegno molto sentito in Gran Bretagna. Come si affronta?
Da una parte non si dovrebbe chiedere al mondo della musica di fare quello che la scuola non riesce a realizzare, in ogni caso al Covent Garden abbiamo un buon reparto educativo che lavora molto, come a anche a Roma, e ci sono programmi per aprire in modo più inclusivo il teatro a diverse tipologie di persone, ma ancora non basta. Nella Turandot a Londra il coro di voci bianche però era strepitoso, la composizione era molto mista, ragazzini e ragazzine, ogni tipo di etnia, nessuna barriera per chi ha un handicap fisico, un vero gruppo multiculturale. Per loro sarà un’esperienza indimenticabile: anche se non diventeranno dei professionisti tutti loro ora sanno cos’è il teatro d’opera e dove sta. Così si forma un nuovo pubblico e a volte si possono cambiare totalmente le vite delle persone.

Il Covent Garden è stato all’avanguardia nello streaming e a Roma vi è servito molto durante la pandemia. Che prospettive ci sono per il suo uso?
È un arricchimento dell’esperienza della musica dal vivo, ma nulla può sostituire la presenza in sala nel momento in cui la musica viene creata e condivisa da una comunità di persone. Con lo streaming però puoi veramente fornire tante informazioni in più. Dai primi piani alle interviste, dall’analisi musicale al racconto storico: sul piano educativo è uno strumento che aiuta a stringere un legame col pubblico.

A breve lei ha un impegno fuori dall’ordinario, l’incoronazione di Carlo III a Londra il 6 maggio.
È un programma musicale gigantesco, scelto personalmente dal re, e inizia già prima del rito. Cinque pezzi nuovi, di tipologia piuttosto tradizionale, e poi i tantissimi brani tradizionali di Parry, Walton, Elgar e altri. È impegnativo anche per la dislocazione nell’abbazia di coro, orchestra, dell’organo e delle fanfare di ottoni, che in alcuni casi dovrò dirigere simultaneamente. Sono felice di questo impegno. Per l’occasione mi vedrete in frac.

Future occasioni per dirigere un’opera: a Roma, a Firenze, a Milano?
Francamente non lo so. Tra le ragioni per cui ho deciso di lasciare il Covent Garden è che ho bisogno di respirare, di tempo per me. Guardando già ora la mia agenda mi accorgo invece che ho la tendenza a accettare progetti che mi piacciono ma finiscono per impegnarmi totalmente: succede tutto in gran velocità e non credo sia la maniera giusta. Dovrò stare più attento in futuro.

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