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Antonio Donghi, psicopatia glaciale, il romano a parte

Antonio Donghi, psicopatia glaciale, il romano a parteAntonio Donghi, «Gita in barca», 1934, Roma, collezione Cerasi

A Roma, Palazzo Merulana Nella mostra a cura di Fabio Benzi, Antonio Donghi è letto fuori dalle implicazioni tonaliste, nella prospettiva magica e internazionale. Un iconofilo, tra cinema e storia dell’arte

Pubblicato 7 mesi faEdizione del 25 febbraio 2024

E’ difficile sfuggire al lieve spaesamento generato dalla fissità siderale delle composizioni di Antonio Donghi (1897-1963). Il pittore, maestro nell’evocare atmosfere rarefatte e cariche di enigmatica sospensione, è oggi al centro di una mostra – aperta a Palazzo Merulana di Roma, sede della Fondazione Elena e Claudio Cerasi – che, in maniera calzante, ha per titolo Antonio Donghi. La magia del silenzio (fino al 26 maggio).

Attraverso una incisiva selezione di opere, la retrospettiva – a cura di Fabio Benzi – racconta il percorso di un artista che, a dispetto di quanto codificato da una certa tradizione di studi, è riuscito a evolvere il proprio linguaggio tramite delle variazioni stilistiche coerenti con l’accanita aderenza a una figuratività di sapore quasi fiammingo.

Al di là degli stereotipi deformanti, la ricerca di Donghi non si esaurisce in una pittura ben condotta, piacevole alla vista e risolta solo esteriormente. Ciò che ha contribuito a viziare la comprensione del personaggio è stata la sua cristallizzazione nel generico alveo della «Scuola Romana». Infatti, per comodità esegetica, è stato a lungo considerato un pittore rinchiuso nell’orizzonte dell’Urbe e dedito a rappresentare un’umanità composta da borghesi, circensi, attori di avanspettacolo. Donghi, invece, godette di una notevole visibilità internazionale perché riuscì a imporsi all’estero in contesti di primaria importanza (espose nel nord Europa, ottenne premi negli Stati Uniti e, nel 1925, fu tra i pochi italiani a essere incluso dal critico tedesco Franz Roh nella tendenza del «Realismo magico»). In ogni caso, nel panorama della pittura romana tra le due guerre polarizzato ora sui furori barocco-espressionisti di Scipione e Mafai, ora sui baluginii tonali di Cagli, Capogrossi e Cavalli, il nitore opalescente dei volumi donghiani ha rappresentato un unicum.

Fino a oggi si è tentato di spiegare l’unicità dell’artista chiamando in causa la Metafisica di de Chirico. In realtà, come chiarisce Fabio Benzi nel denso saggio in catalogo (Palombi Editori), l’influenza del pictor optimus dovette essere piuttosto evasiva poiché, dal punto di vista stilistico, non portò a nessun radicale cambiamento. Eloquenti – e opportunamente visibili in mostra – sono le prove degli esordi che attestano quanto Donghi, ancora attorno al 1922 – a seguito quindi della presunta folgorazione avvenuta a cospetto delle tele del padre della Metafisica – continuasse ad attardarsi su un Post-impressionismo di vaga ascendenza spadiniana.

Cos’è quindi che, dopo degli inizi piuttosto anonimi, ha portato l’artista a rassodare la propria visione facendolo giungere a una inedita – specie per la Roma del tempo – pennellata smaltata riecheggiante, secondo il parere di Roberto Longhi, i modi di Orazio Gentileschi? Come intuisce il curatore della mostra, nella carriera di Donghi ci fu un turning point collocabile tra il 1922-’23. Attorno a quella data egli non solo poté acquisire maggior consapevolezza della cultura del «Ritorno all’ordine» diffusa a livello europeo e ben radicata a Roma anche attraverso la rivista «Valori Plastici» (1918-’21), ma dovette verosimilmente venire in contatto con sollecitazioni visive capaci di orientarlo verso un realismo trasognato e glaciale tangente alla Nuova Oggettività tedesca. Su questo fertile crinale Fabio Benzi propone, a giusto titolo, due puntuali riferimenti: Felice Casorati e Ubaldo Oppi. Il primo – restauratore di forme e idealità neo-quattrocentiste nella pittura italiana degli anni venti – pur lavorando in ambito torinese doveva essere un nome ricorrente nelle discussioni tra critici, collezionisti e artisti vicini a Donghi. Oppi invece – nutritosi sin dagli anni giovanili di stimoli mitteleuropei e destinato a diventare interprete di spicco del Novecento sarfattiano – proprio nel 1922 era stato al centro di una personale alla galleria di Anton Giulio Bragaglia che poté essere senz’altro visitata da Donghi.

Quest’ultimo, tra le altre cose, era perfettamente addentro al circuito della Casa d’Arte Bragaglia, officina creativa di respiro internazionale che, non a caso, nel 1924 funzionò da scenario per una delle sue prime importanti mostre. Proprio in quell’occasione il pittore romano presentò un’opera di svolta – Le lavandaie oggi in collezione Cerasi e significativamente esposta nella presente mostra – assumendo la cifra espressiva raggelata che, non senza sgomento della critica, lo rese celebre. Del resto, già nel 1923, un commentatore d’eccezione quale Emilio Cecchi aveva associato alla «psicopatia» l’ossessione donghiana a modellare il dato retinico secondo rigidi stereometrismi. In via analoga, nel 1929, Corrado Pavolini non solo paragonò la fattura inanimata dell’universo ritratto da Donghi a «superfici impiallacciate da mobiliere inglese» ma, con un lessico rivelatorio, sottolineò l’ansia dell’artista nel contemplare la «forma pura con gelida, ironica, paurosa obiettività».

Donghi si affianca bene ai pittori tedeschi affiliati alla tendenza variamente definita «Realismo magico» o «Nuova oggettività». Al pari dei colleghi nordici – ad esempio Georg Schrimpf, forse conosciuto attraverso la monografia di Carlo Carrà edita da «Valori Plastici» (1924) – caratterizzò le sue figure di impassibilità allucinata e, allo stesso tempo, di una sottile malinconia. Parallelamente, il suo scrupolo teso alla selezione chirurgica della visualità di diversi tipi umani lo accomuna allo sguardo del celebre fotografo tedesco August Sander che, un po’ come Donghi, si impegnò a immortalare, cogliendone l’essenza archetipale, i rappresentanti di classi sociali eterogenee.

La fotografia, e per esteso, il cinema, sono versanti estetici che hanno molto a che fare anche con Donghi il quale aveva un’autentica passione per i film tedeschi. Tale predilezione aiuta a svelare la sostanza narrativa della sua pittura – i suoi quadri, quasi fotogrammi cinematografici, sono frammenti di storie perdute – e, al contempo, contribuisce a far emergere la carica antinaturalista di un linguaggio rivolto alla riproduzione di un mondo fenomenico decantato da ogni eccedenza. In fondo, prima ancora della realtà, Donghi ama le immagini mediate dalla Storia dell’arte, dall’illustrazione popolare, dal cinema, e con un temperamento da «iconofilo» medita sulla risonanza, e sulla consunzione, di specifici «simulacri». Indicativi, nello specifico, sono due insoliti quadri intelligentemente esposti in mostra: l’Annunciata (1939), quasi un esercizio di stile sulla banalità delle icone devozionali prodotte in serie e, ancor di più, il Ritratto equestre del Duce (1937), dipinto realizzato per un concorso pubblico che nella naïveté disarmante sembra alludere all’inconsistenza di un modello iconografico propagandato fino alla nausea nell’Italia del Ventennio.

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