Antonio Bassolino: «Il premier al Colle una chance di riscatto per la politica e la sinistra»
Intervista Antonio Bassolino, dirigente del Pci, poi sindaco di Napoli, ministro del Lavoro e presidente della Campania, guarda alla corsa per il Quirinale dal suo osservatorio di Napoli, dove da pochi mesi è tornato sui banchi del consiglio comunale da indipendente
Intervista Antonio Bassolino, dirigente del Pci, poi sindaco di Napoli, ministro del Lavoro e presidente della Campania, guarda alla corsa per il Quirinale dal suo osservatorio di Napoli, dove da pochi mesi è tornato sui banchi del consiglio comunale da indipendente
«La situazione del paese e grave e confusa, a mia memoria un’elezione per il Quirinale che mette in gioco anche la vita del governo e della legislatura, nel pieno di una pandemia e di una grave sofferenza sociale, non si era mai verificata. Non mi pare di vedere tra le forze politiche una piena consapevolezza della posta in gioco. Anzi, vedo grande confusione». Antonio Bassolino, dirigente del Pci, poi sindaco di Napoli, ministro del Lavoro e presidente della Campania, guarda alla corsa per il Quirinale dal suo osservatorio di Napoli, dove da pochi mesi è tornato sui banchi del consiglio comunale da indipendente. «Mi pare che il paese reale che soffre resti troppo sullo sfondo, tutti abbiano il dovere di guardare meglio questa sofferenza che è sociale ma anche psicologica: l’incremento della povertà è visibile a occhio nudo, l’aumento delle disuguaglianze è impressionante. Tutto questo mi pare molto sottovalutato».
Anche dal governo?
Alcune risposte sono state date, mi auguro che si arrivi presto a una decisione sul «bonus psicologo». Nel complesso c’è un lungo cammino ancora da fare, non basta guardare alle sole cifre della crescita.
Come si riverbera questa situazione sulla scelta del nuovo capo dello Stato?
Serve una risposta in tempi brevi, bisogna evitare che le votazioni si trascinino. Ed evitare assolutamente il grave errore di non avere Draghi né al Quirinale e né a palazzo Chigi. Sarebbe un atto di autolesionismo nazionale.
Anche lei un fan del premier?
In questo quadro è inutile negare che il suo ruolo è importante, anche a livello internazionale.
Quale sarebbe lo schema migliore?
O si trova un nome molto autorevole per il Colle che consenta a Draghi di continuare a governare o si elegge lui al Quirinale e si cerca di proseguire l’esperienza di governo con un sussulto di responsabilità della maggioranza. Sono due opzioni percorribili, la discussione è pienamente legittima.
Però c’è Berlusconi che si è messo in mezzo.
Si tratta di una iniziativa politica di tutto il centrodestra che ha tenuto banco in queste settimane, ma non la considero realistica. E credo che occorra muoversi perché già dalla prima votazione emerga una soluzione a larghissima maggioranza.
Un altro nome oltre a Draghi che possa avere un consenso largo non si trova. Neppure su una figura come Giuliano Amato.
Bisogna lavoraci, decidendo una volta per tutte di lasciare tranquillo il presidente Mattarella. Da diverse parti si pensa di tornare a lui se la situazione dovesse incartarsi. Ma non è giusto continuare con questo retropensiero, che pure aleggia in molte forze politiche.
Perché?
Il no di Mattarella al bis è giusto e merita grande stima. E il precedente di Napolitano del 2013 milita a favore delle ragioni del suo diniego. C’è già stata un’eccezione, si rischia che la rielezione del capo dello Stato diventi una prassi.
C’è il rischio che Draghi al Colle comporti un commissariamento della politica? È una preoccupazione diffusa a sinistra.
Con presidenti politici come Scalfaro, Napolitano e Mattarella abbiamo avuto governi tecnici, dal Ciampi del 1993 a Monti e poi Draghi. Se quest’ultimo andasse al Quirinale credo che in 7 anni i partiti potrebbero ricominciare a fare politica, fare i conti con se stesse, riprendere un rapporto vero con la società. E la sinistra potrebbe tornare a fare la sinistra, proprio perché al vertice dello Stato c’è un punto di riferimento stabile. L’astensionismo, che alle suplettive di Roma è arrivato al 90%, è il primo partito italiano: e in nuova parte è un astensionismo attivo, non solo disinteresse.
Come valuta lo stato di salute del centrosinistra e del Pd?
Il Pd è poco sopra il 20%, le altre forze sono molto deboli. C’è davanti a noi una sfida enorme che riguarda il rapporto di questi partiti con la società, a partire dal mondo del lavoro, e con le tante esperienze civiche che stanno germogliando. La mia opinione è che il terreno non si sia ancora assestato, siamo ancora dentro un movimento.
Letta ha proposto le agorà. La convince?
Ci sono pezzi di società che sono lontanissimi dai partiti e che vanno ascoltati. Il problema del centrosinistra non è solo avere migliori relazioni tra i suoi protagonisti, ma coltivare queste relazioni con le forze nuove che stanno fuori, e che popolano il variegato mondo dell’astensionismo. Qui c’è il futuro.
Il Pd è ancora un progetto attuale?
Ero tra quelli che voleva fondarlo a metà degli anni Novanta, ai tempi dell’Ulivo. Nel mondo spirava un’aria riformatrice che nel 2007 era già cambiata.
Un partito nato in pieno neoliberismo, post ideologico.
Non credo alla storia che il Pd abbia soffiato nelle vele del neoliberismo o che ci si sia accomodato.
Ora Bersani e D’Alema con Articolo 1 sono proti a rientrare.
Non so se avverrà, ne stanno discutendo. Ripeto: il tema non è rimettere insieme le forze attuali, o tornare indietro, ma aprire a chi è fuori dall’attuale centrosinistra.
Il matrimonio tra Pd e M5S sta funzionando?
Qualche passo avanti è stato fatto. Diciamo che la vicenda del Quirinale sarà una verifica importante. (and.car.)
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