Antoni Padrós l’underground antifranchista
Lucca Film Festival Retrospettiva, realizzata in collaborazione con la Filmoteca de Catalunya di uno degli autori più originali dell'underground europeo
Lucca Film Festival Retrospettiva, realizzata in collaborazione con la Filmoteca de Catalunya di uno degli autori più originali dell'underground europeo
La marginalità è per Padrós una peculiarità dello stile. Il cineasta che si muove ai margini dell’industria (ricusando così una posizione di subalternità rispetto al potere) ha l’obbligo di piegare lo spettro della visione alle marche distintive della propria radicale indipendenza. Rinunciare all’industria significa rinunciare in prima istanza a un opulento dispiego di mezzi tecnici e risorse finanziarie. I corti underground di Padrós vengono realizzati tra il 1969 e il 1972 sotto l’egida della scuola Aixelà (una scuola di cinema apertamente antifranchista gestita, fra gli altri, da Pere Portabella e Román Gubern), che mette a disposizione del regista rulli di pellicola scaduta a prezzi più che agevolati. Se da una parte le precarie condizioni della pellicola vergine (16mm Dupont) determinano un’invasiva grana sulla superficie dei fotogrammi, dall’altra l’impiego dei negativi sonori in qualità di supporti visivi (si vedano a tal proposito Swedenborg e i due lungometraggi, Lock-out e Shirley Temple Story) fa sì che il bianco e nero, prossimo a quello delle vecchie pellicole ortocromatiche, evidenzi importanti contrasti fotografici.
La grana, congiuntamente a questi stessi contrasti, è concreta marca stilistica di un temperamento che rifiuta categoricamente qualsiasi compromesso con il sistema: Padrós finanzia i suoi lavori di tasca propria con lo stipendio che percepisce da umile travet (non di rado indebitandosi con amici e colleghi). Le sceneggiature – anche se in questo caso sarebbe più corretto parlare di bozze, appunti, congetture – non passano al vaglio della censura ed è pertanto autore di film legalmente inesistenti. Gira senza ingerenze esterne, resta fedele al proprio acido immaginario e diventa nel giro di pochi anni un regista di culto. I suoi film circolano grazie alla febbrile attività dei circuiti alternativi: rassegne clandestine, cineclub universitari, festival. Nel 1979 la rivista ufficiale del Festival International du Jeune Cinéma di Hyères lo annovera tra i «più importanti cineasti contemporanei», accostandone l’opera a quella di Werner Schroeter e Mark Rappaport.
L’obiettivo di Padrós irride il potere nelle sue molteplici declinazioni: a essere chiamati in causa non sono soltanto il regime franchista e la Chiesa di Roma, bensì anche i perdigiorno della gauche divine, quella «sinistra al caviale» fintamente rivoluzionaria da cui il regista, cresciuto in una famiglia d’estrazione proletaria, ha sempre fieramente preso le distanze. Nei primi corti di Padrós è proprio il dogmatismo ideologico delle classi medio-alte a essere ripetutamente stigmatizzato. In Pim, pam, pum, revolución (1970), ad esempio, il cineasta sbeffeggia apertamente la cattiva coscienza delle élites culturali barcellonesi, il loro inneggiare a un marxismo che è sterile chiacchiera da salotto, la loro (in)consapevole sottomissione ai rigidi dettami dello status quo.
L’altro tema prediletto è il cinema in quanto fucina di modelli iconografici. Il gesto autoriale di Padrós raggruma tendenze e suggestioni eterogenee, rielaborando alcuni dei repertori simbolici più rappresentativi del cinema americano classico (da Capitain January a Via col vento, da Il mago di Oz agli horror della Universal, dai musical degli anni Trenta e Quaranta ai coevi gangster movie). In Shirley Temple Story (a giudizio di chi scrive uno dei film più densi e rivoluzionari degli anni Settanta), «l’omaggio si trasforma in sabotaggio e la fascinazione in disincanto», come osservava Rafael Miret in un remoto numero di «Dirigido por…».
Padrós è in tal senso l’opposto speculare di Peter Bogdanovich: laddove il rapsodo di Kingston commemora affettuosamente i miti del cinema classico, il francotiratore di Terrassa li affossa con oltraggiosa spietatezza (proprio in quanto miti imposti dal potere dominante). Il cinema di Padrós, inoltre, denuncia la repressione dei costumi promossa da Franco con il concorso delle frange più reazionarie della chiesa cattolica: la sessuofobia delle classi dirigenti è un ulteriore obiettivo da intercettare, colpire e affondare (Dafnis y Cloe e Shirley Temple Story filtrano l’iconografia religiosa con la lente di un’ironia sottilmente blasfema, Ice cream è il racconto – sorprendentemente allusivo – di una fellatio, ¿Qué hay para cenar querida? propone un’interpretazione dell’incesto mediata dal filtro della repressione borghese). Del resto, è proprio lo stesso Padrós a sostenere che «la perversione è caratteristica ineludibile di chiunque si rapporti al cinema. Dove non c’è perversione, non c’è creazione».
La nona edizione del Lucca Film Festival (23-27 settembre) celebrerà il talento anarcoide di Antoni Padrós presentando – per la prima volta in Italia – una rassegna completa dei corti girati dall’artista tra il 1969 e il 1972. Sette cortometraggi folli e inventivi concepiti all’ombra dell’ultimo franchismo, rigorosamente autoprodotti ai margini delle strutture amministrative, della censura e dei sindacati. La retrospettiva, che sarà inaugurata martedì 24 settembre presso il Cinema Centrale (via di Poggio, 36) alla presenza dello stesso Padrós, permetterà al pubblico italiano di conoscere uno dei cineasti più originali e talentuosi dell’underground europeo.
Artisticamente nasci come pittore. I tuoi primi quadri sono pregni di un’estetica «pop» perfettamente sintonizzata con le tensioni culturali del loro tempo. Penso a Warhol, Lichtenstein… In quale misura eri conscio di questa influenza?
Nel 1967 mi invitarono alla Bienal de São Paulo, dove c’erano anche Andy Warhol, David Hockney e molti altri artisti dell’epoca. C’è sicuramente un filo rosso che mi lega a loro. Agli inizi degli anni Sessanta avevo iniziato a viaggiare: Parigi, Londra, Roma… Questi viaggi mi avevano aperto gli occhi sulle tendenze artistiche del momento. Di fatto, fu proprio il primo viaggio a Parigi che mi spinse a scegliere la pittura. Qui a Barcellona, comunque, non si parlava tanto di «pop» quanto di «Nueva figuración».
Come si è prodotto il passaggio dalla pittura al cinema?
Ho esposto per alcuni anni alla Sala Gaspar [una delle più celebri gallerie d’arte di Barcellona, n.d.r.], poi decisi di voltare pagina. Mi sentivo limitato: avevo bisogno di raccontare storie in quattro dimensioni. A darmi la spinta definitiva fu il saggio di Raoul Vaneigem Traité de savoir-vivre à l’usage des jeunes générations: l’individuo può tutto, gli unici limiti che ha sono quelli che egli stesso si pone. Così mi iscrissi ai corsi della scuola Aixelà, dove appresi i fondamenti tecnici e realizzai i primi lavori.
Nel primo cortometraggio, Alice has discovered the napalm bomb, sembra che tu voglia trasporre su pellicola le suggestioni iconografiche dei tuoi quadri «pop».
Hai ragione. In questo primo film credo proprio di aver riversato buona parte delle mie ossessioni pittoriche. Merito anche dei meravigliosi colori della Kodak [il film è stato girato in 8mm, n.d.r.]. La protagonista era Alice, una specie di creatura «pop», una ragazzina con un laccio rosso sulla testa che avevo più volte ritratto nei miei quadri.
Con Dafnis y Cloe, il corto successivo, inizi a elaborare un approccio più consapevole alle pratiche di messa in scena. Cambi anche supporto: cosa ha rappresentato per te il passaggio dall’8 al 16mm?
Il 16mm rappresenta il mio primo contatto professionale con il bianco e nero. Il bianco e nero ha sempre avuto il potere di rievocare in me il freddo che pativo da bambino quando mi rifugiavo nelle sale cinematografiche di Terrassa. I film che si proiettavano erano in bianco e nero. Ricordo nitidamente La main du diable di Maurice Tourneur, ad esempio. Passare al 16mm è stato sposare il bianco e nero, ossia recuperare, sebbene remotamente, la dimensione di quel cinema che amavo allora. La scuola Aixelà mi metteva a disposizione rulli di pellicola scaduta con la quale potevo sperimentare senza eccessivi sperperi di denaro. Dafnis y Cloe è un film che amo molto. Fu il tentativo di disintossicarmi da tutto quel sostrato culturale integralista e bigotto che piaceva tanto ai franchisti. È un collage surrealista in cui si parla di Cristo, Che Guevara, Marilyn Monroe, James Dean… Il cinema mi permetteva di liberare le mie fantasie. Avevo la possibilità di forgiare una realtà parallela, molto distante da quella che vivevo quotidianamente nella mia grigia città di provincia. Tutto ciò che ci fa evadere dalla quotidianità, che sia dipingere, scrivere o fare cinema, è un atto di ribellione verso quella stessa società in cui non ci sentiamo integrati.
Il tuo è un cinema che lavora assiduamente sul repertorio musicale (melodramma ottocentesco, bolero, bossa nova…). Nell’ambito dei tuoi personali processi creativi, che tipo di relazione hai stabilito con la colonna sonora?
La musica ha sempre rivestito un ruolo determinante. Mi aiuta a concepire molti dettagli di messa in scena e contribuisce ad alimentare le atmosfere in cui si muovono i miei personaggi. Le passioni che mi animano sono assolutamente eterogenee: spazio da Albinoni al melodramma operistico, dallo swing al bolero, dal tango al cha cha cha.
Fra i maestri della scuola Aixelà chi ha rivestito un ruolo determinante nella tua formazione come cineasta?
Pere Portabella, senza dubbio. Pere è intoccabile. Mi ha insegnato la tecnica, ovviamente perché poi potessi dimenticarla. In quegli anni furono lui, Román Gubern e Manuel Vázquez Montalbán ad aprirmi gli occhi. Io venivo dalla provincia, avevo orizzonti assai limitati, mentre loro erano all’avanguardia su tutto.
Che tipo di esperienza è stata quella del cinema marginale?
Mi hanno sempre dato dell’autoemarginato. Persino sull’enciclopedia catalana c’è scritto: «Antoni Padrós: autoemarginato» (ride). In effetti non credo che fossero tanto gli altri a emarginarmi quanto io stesso a cercare questa specie di esclusione. I miei film non passavano dalla censura né venivano distribuiti nei circuiti commerciali. Giravo quello che volevo e come volevo, questa era la ragione per cui amavo muovermi ai margini del sistema. Certo, potevo farlo perché ogni mattina timbravo il cartellino ed ero, almeno in apparenza, un «uomo perbene». Ero un Dr. Jeckyll e Mr. Hyde. Alle tre del pomeriggio tornavo a casa e davo sfogo alla mia creatività: dipingevo, pianificavo quello che avremmo girato nei fine settimana, scrivevo racconti, sceneggiature. Investivo nel cinema tutto quello che guadagnavo in banca. Girare era per me una sorta di necessità fisiologica: come mangiare, bere, fare l’amore. Shirley Temple Story mi era costato un milione di pesetas. Avevo amici in quegli anni che con la stessa cifra si erano comprati un appartamento a Cadaqués! Da quel momento sarebbe stato impossibile per me tornare a girare in tali condizioni, anche perché con i miei film non mi sono mai messo in tasca un centesimo.
Franco morì proprio mentre eri impegnato nelle riprese di Shirley Temple Story. Ricordi l’istante in cui ti diedero la notizia?
L’istante preciso no, però ricordo che alla prima occasione stappammo una bottiglia di cava… (ride)
Come hai vissuto gli anni della transición e del consolidamento democratico?
Negli ultimi anni della dittatura ero un kamikaze del cinema indipendente che girava senza soste. Dopo la dissoluzione del regime non avevo più nessun interesse ad autoprodurmi, anche perché l’ultimo film, come ti dicevo, mi era costato quanto un appartamento. Shirley Temple Story aveva riscosso un ottimo successo internazionale, era stato applaudito a Londra, Stoccolma, Berlino, Bruxelles, Hyères, ma ciò non determinò grandi svolte nei miei rapporti con i produttori. Nel 1986 ho girato un cortometraggio in Betacam, Ascenció, caiguda i repós de Maria Von Herzig e nel 1989, insieme a Octavi Martí, il mio unico film in 35mm, Verònica L., una dona al meu jardí, che venne presentato al Festival di San Sebastián ma per ragioni contingenti non fu mai distribuito. Per anni ho sperato di poter mettere in scena Ombres de foc, una storia ispirata all’universo poetico di Goethe che avrei dovuto realizzare in coproduzione con la Germania e con Bruno Ganz come protagonista.
Hai girato in 8mm, 16mm e 35mm. Il tuo ultimo corto, L’home precís, è stato realizzato in Alta Definizione. Come ti sei trovato a lavorare con questo nuovo supporto?
Mi sono avvicinato all’Alta Definizione per pura casualità: un amico mi disse che avrei potuto utilizzare le sue attrezzature qualora avessi voluto realizzare uno dei miei vecchi progetti. Ho ripescato nei cassetti della scrivania un mio vecchio racconto, L’home precís, e l’ho girato in cinque giorni. L’esame del materiale grezzo, in un primo momento, mi lasciò interdetto: l’immagine era troppo pulita, quasi perfetta. Dovemmo ricorrere alla color correction per sporcarla un po’, renderla più evocativa, cinematografica… Comunque mi sono trovato bene a lavorare con l’HD. È un supporto molto economico e immensamente pratico.
Progetti per l’immediato futuro?
Un film intitolato False giapponesi suicide, che comincia a Yokohama e si chiude sulle guglie della Sagrada Familia. La protagonista è una donna di Manresa [centro industriale prossimo a Barcellona, n.d.r.] che progetta un suicidio spettacolare davanti alla cattedrale di Gaudí, avvolta in un abito da geisha. Ho iniziato a dirlo per scherzo a tutti coloro che mi chiedevano informazioni sul mio prossimo film, ma ora ho un sogno: poterlo realizzare davvero. Chi vivrà, vedrà.
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