Visioni

Antoinette Zwirchmayr, per fare film «colleziono» la realtà

Antoinette Zwirchmayr,  per fare film «colleziono» la realtà

Festival Conversazione con la regista austriaca a cui Filmmaker dedica un omaggio nella sezione Fuori Formato. in programma da oggi, giovedì 3 dicembre,  per 72 ore sulla piattaforma di MYmovies.

Pubblicato quasi 4 anni faEdizione del 3 dicembre 2020

I film di Antoinette Zwirchmayr conducono in una dimensione incantata, sospendono le relazioni abituali tra corpo e ambiente, parola e immagine, accolgono oggetti animati e inanimati in una geometria di desiderio che è insieme infantilmente letterale e perversamente analogica. Come nel recente The Seismic Form (2020), ispirato ai pensieri di Baudrillard su Pompei, nel suo cinema tutto è tumulto pietrificato, smottamento di significanti, seduzione insondabile della superficie. Le ho rivolto qualche domanda in occasione del suo profilo a Filmmaker Festival all’interno della sezione Fuori Formato: in programma da oggi, giovedì 3 dicembre,  per 72 ore sulla piattaforma Mymovies.

Il tuoi film giocano su una soglia tra fissità e movimento, fotografia e cinema: come sono coinvolti questi media nella tua pratica?
La mia pratica cinematografica ha origine in quella fotografica. Ora la fotografia mi manca, non riesco più a fotografare quanto prima, ma il pensiero fotografico si trasmette sempre ai miei film, c’è una costante e reciproca ispirazione.

Hai un modo peculiare di inquadrare i corpi in figurazioni affascinanti e disorientanti. Come lavori alla composizione delle tue immagini nella fase preparatoria e poi durante le riprese?
Tutti i miei lavori sono basati sul collezionismo: colleziono oggetti, paesaggi e impressioni delle persone che incontro. A un certo punto alcune di queste coordinate s’incontrano e arriva il momento di girare un film. Una volta andavo sul set senza sapere cosa avrei fatto ed ero molto nervosa durante delle riprese. E quando sono nervosa è più difficile accogliere il flusso creativo. Ora cerco di essere più preparata: mi porto immagini d’ispirazione, bozzetti precisi e se posso faccio un sopralluogo. Così sono più preparata, anche a riconoscere e accogliere gli imprevisti che accadono sul set.

Spesso i tuoi corti sono molto densi e concentrati su motivi specifici, mentre quelli della trilogia «What I Remember», hanno una struttura più articolata e costruita su una relazione complessa tra immagini e parole. Come è iniziato questo progetto e come si è sviluppato nei vari capitoli?
Con What I Remember ho provato ad avvicinarmi alla storia della mia famiglia. Volevo giocare con una mescolanza di fantasia, stereotipi ed esperienze reali. Non volevo rendere un’immagine puramente realistica. Mi interessava vedere quale immagine si forma a partire da diverse influenze. Ad esempio, non avevo più visto il bordello di mio nonno da vent’anni e credevo di ricordarne ogni dettaglio, ma quando ci sono rientrata tutto era diverso, anche se nulla era stato modificato: era la mia memoria che era divenuta una nuova entità. Il punto di partenza per la seconda parte è stato lo spesso faldone di atti processuali relativi alla rapina in banca di mio padre. Qui mi interessava soprattutto giocare con le possibilità offerte dal cinema: nel film diventava possibile che la figlia fosse più grande del padre e sapesse in anticipo cosa sarebbe accaduto nel futuro. Padre e figlia possono così incontrarsi anche se occupano tempi differenti.
La terza parte è forse la più problematica. Le immagini del film mostrano gli stereotipi coloniali con cui sono cresciuta. Volevo visualizzare queste immagini che mi circondavano da bambina, per comprendere alla fine come siano sbagliate: immagini di donne, di uomini e del Brasile. Ma volevo mostrare al contempo quanto è difficile liberarsi di questi stereotipi dopo che si sono impiantati.

Nei cortometraggi più recenti come «Jean Luc Nancy» e «The Seismic Form», il rapporto tra immagine e testo è invece più astratto rispetto all’approccio personale e memoriale della trilogia. Qual è stata l’ispirazione per questi film?
Jean Luc Nancy è per me un film molto importante, rappresenta una sorta di punto di svolta nel mio lavoro. Ho scoperto come lavorare con un testo in modo astratto. Ovvero un testo che non imponga una narrazione, ma che si possa cogliere solo per frammenti, senza che sia necessario comprenderlo parola per parola. Il testo è criptico quanto le immagini. The Seismic Form è il mio film più elaborato. Per le riprese sono stata più volte in Italia e una volta nelle Filippine. Ho impiegato diversi anni per realizzarlo ed è un progetto che ha cambiato il mio modo di lavorare. Ho imparato, come dicevo prima, a prepararmi, fare un piano di lavoro preciso. In una location come un vulcano, dove è difficile filmare, è opportuno discutere prima coi propri modelli cosa si farà, soprattutto se questi saranno nudi. Prima non permettevo a nessuno di partecipare alla progettazione, nemmeno a me stessa. Ho imparato anche a coniugare lavoro e vita, che resta comunque una delle cose più difficili, perché come artista sei sempre in cerca di qualcosa e questo potrebbe venirti incontro ovunque e in ogni momento. Con questo film penso di aver soddisfatto l’attrazione che provo verso l’Italia e verso i vulcani. Anche il mio ultimo film, Oceano mare è girato in Italia, che per me è un luogo carico di desiderio e di motivi cinematografici.

Questa intervista è un sostituto della conversazione che avremmo potuto avere in occasione di una vera proiezione a Filmmaker Festival. Tu presenti i tuoi lavori al cinema e in galleria: come ti relazioni a questi due contesti e come invece ti rapporti all’idea di mostrare i tuoi film online?
Amo lo spazio della galleria quanto la sala cinematografica, ma purtroppo non riesco a dedicare loro le mie energie altrettanto equamente. Al momento le mie possibilità di esporre in galleria sono limitate, mentre il mio tempo è tutto occupato da progetti pensati per il cinema. Sono molto inflessibile sulla presentazione del mio lavoro e rifiuto molti inviti se sento che il contesto non è opportuno. La rete è tutt’altro che opportuna, ma sto provando a forzare la mia rigidità, almeno per questo periodo turbolento e fuori dall’ordinario. Quando sarà finito, tornerò alla mia abituale severità: di nuovo in sala e lontano dalla rete.

E come stai vivendo questo periodo turbolento? Come ne ha risentito il tuo lavoro e in che modo affronti i tuoi prossimi progetti?
Sono in una posizione davvero privilegiata in questo senso: durante i lockdown sono riuscita a trasferirmi nella casa di campagna della mia famiglia, dove ho potuto fare camminate nei boschi e nelle vigne, passare il tempo in giardino. Ironicamente nel corso di quest’anno ho girato i miei due film più impegnativi e al momento sto sfruttando il secondo lockdown per lavorare alla post-produzione. Durante il primo lockdown ho filmato molto per conto mio, riprendendo cose che trovavo fuori, attorno alla casa, come quel che vedi nell’immagine che allego. Sono curiosa di vedere come questa crisi si renderà visibile nei film; ma per questo bisognerà attendere un po’ di tempo, quando avremo acquisito una distanza da questo periodo traumatico.
* Curatore della sezione Fuori Formato

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