«Teso come un manifesto»: così si sente Francesco Guccini prendendo la parola davanti ai giornalisti e agli studenti accorsi nell’aula magna della Statale di Milano per la presentazione di Canzoni da osteria, uscito ieri per Bmg in formato esclusivamente fisico come il suo predecessore. Frutto di quelle stesse registrazioni, l’album rappresenta l’ideale secondo volume delle Canzoni da intorto che l’anno scorso gli erano valse la Targa Tenco come “interprete di canzoni”; qualità, questa, spesso messa in secondo piano dal valore della sua scrittura. La presentazione milanese è l’occasione per chiedergli cosa provi a dar voce a testi che non sono più i suoi: «Non credo ci sia una grande differenza, se non che la voce non è più quella di qualche anno fa, quando alla fine ero diventato un cantante discreto. Ma l’interpretazione c’è, perché sono canzoni in cui ho creduto, ho cercato di metterci dentro tutto ciò che avevo e penso di esserci riuscito, in qualche modo».
Canzoni in cui ha creduto perché «parlano della vita vera, al contrario delle canzonette del dopoguerra, a dir poco ignobili… Ma vi ricordate La casetta in Canadà? Arriva quello stronzo di Pinco Panco a darle fuoco e lui cosa fa invece di denunciarlo? Costruisce un’altra casetta! Ma allora sei un c……e! Per fortuna poi sono arrivati i Cantacronache, Amodei che riassume in una canzone, Il Tarlo, il Capitale di Marx…».
Più che un secondo volume, in definitiva, l’album rappresenta assieme a Canzoni da intorto una sorta di prequel, l’antefatto musicale del canone gucciniano, l’humus di un canzoniere fermentato proprio nelle osterie, insospettabili spazi di produzione culturale e impegno civile: «Gente di destra lì non ce n’era, i fighetti andavano al Whisky a Go Go. Anche se noi non facevamo le lotte in fabbrica discutevamo molto del Vietnam e, dai primi anni Settanta, dei diritti civili. Ho fatto diversi concerti per sostenere le leggi sul divorzio e sull’aborto».Più che un secondo volume, in definitiva, l’album rappresenta assieme a Canzoni da intorto una sorta di prequel, l’antefatto musicale del canone gucciniano

LA BOLOGNA delle osterie, però, è anche la città dei biassanot, i tiratardi che come lui «baciavano la notte» salutando l’alba col «caffè della stazione per neutralizzare il vino» immortalato in Via Paolo Fabbri 43. Una stagione che Guccini vorrebbe celebrare ufficialmente, «con una targa dedicata a tutti i biassanot bolognesi».
Coerentemente con il discorso sull’impegno civile, sono due canti di resistenza ad aprire e chiudere la scaletta di quest’ultimo disco, Bella ciao e 21 aprile: «La prima l’ho inserita perché è diventata un inno di protesta contro la teocrazia iraniana, volevo fare un piccolo omaggio alla loro lotta. Ho cantato “oppressore” anziché “invasore”, perché l’Iran non è stato invaso ma oppresso dall’interno», aggiungendo con malcelata allusività che «neanche l’Italia è stata invasa…».

NEL BRANO conclusivo invece, scritto dall’amico Alexandros Devetzoglu, riaffiora la memoria del colpo di stato perpetrato dai colonnelli greci nel 1967. Guccini lo interpreta in italiano e in lingua originale, chiudendo così un disco all’insegna del multilinguismo: alle americane The last thing on my mind e Cotton Fields fanno da contraltare quelle latine cantate anch’esse in lingua, così come il brano ebraico Hava Nagila. Il quale offre un aggancio fin troppo facile con l’attualità: «Quando ho deciso di inserirlo non era ancora iniziata la guerra. Ma vorrei citare la tavola che il mio caro amico Staino [cui chiede di dedicare un applauso, nda] disegnò a partire dalla canzone Il vecchio e il bambino: uno aveva sulle spalle una bandiera israeliana, l’altro quella palestinese. Può sembrare retorica, ma voglio ancora sperare».