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Anthony Doerr, ragazzi e annientamento

Anthony Doerr, ragazzi e annientamentoGerhard Richter, «Mustang-Staffel», 1964, Washington, D.C., collezione Robert Lehrman

Due adolescenti «feriti» e il loro candido incontro con i misteri della scienza mentre il mondo precipita... «Tutta la luce che non vediamo», un caso di letteratura bellica e di semplicità alla Verne

Pubblicato più di 9 anni faEdizione del 31 maggio 2015

È forse proprio dall’equivoca definizione di «romanzo bellico» che può essere utile partire per Tutta la luce che non vediamo di Anthony Doerr, pubblicato da Rizzoli nell’efficace traduzione a quattro mani di Daniele A. Gewurz e Isabella Zani (pp. 509, euro 19,00). Pubblicato lo scorso anno e accolto da un notevole successo tanto di pubblico che di critica; finalista al National Book Award, dove gli è stata preferita Fine missione, la magnifica raccolta di racconti di guerra e di reduci di Phil Klay; vincitore del premio Pulitzer, contro due «mostri sacri» della letteratura americana contemporanea come Joyce Carol Oates e Richard Ford; inserito da molti recensori, probabilmente a torto, dentro la tradizione, appunto, del romanzo bellico, è stato il caso letterario del 2014 negli Stati Uniti. Autore rispettato, inserito da Granta tra i migliori nuovi narratori americani, Doerr ha compiuto con questo suo ultimo libro un salto di qualità impressionante, che lo ha proiettato, dopo l’apprezzamento unanime per le raccolte di racconti The Shell Collector e Memory Wall, per il memoir Four Seasons in Rome e per il primo romanzo, About Grace, nell’empireo della narrativa capace di coniugare qualità, ambizione e vendibilità.
Tutta la luce che non vediamo ha le sue virtù più immediate nella qualità della prosa, capace di unire lirismo e precisione quasi scientifica, e nella solidità della struttura, articolata su due distinti piani temporali. Si apre nel 1944, con il bombardamento alleato di Saint Malo, e chiama immediatamente sulla scena quelli che saranno i protagonisti del romanzo: Marie Laure, sfollata dalla natia Parigi, cieca ormai da anni, abbandonata da sola in una grande casa a cinque piani, e Werner, soldato tedesco, esperto di circuiti radio, sepolto insieme a due commilitoni tra le rovine dell’albergo dove era di stanza. Dopo pochi capitoli, tutti caratterizzati da un’estrema concisione, quasi si trattasse di frammenti dispersi in una narrazione più ampia e corale, Doerr ci riporta indietro nel tempo e ci racconta l’infanzia dei due personaggi, soffermandosi sul rapporto intenso e toccante tra Marie Laure e il padre, fabbro e custode del Museo parigino di storia naturale, e sugli anni di stenti trascorsi da Werner, insieme alla sorella minore, in un orfanotrofio nella regione mineraria dello Zollverein.
La sapiente struttura del romanzo è dunque costruita su due alternanze: quella temporale, tra il presente bellico e l’infanzia e adolescenza dei due protagonisti, e quella spaziale tra la Francia di Marie-Laure, resa inquieta dai presagi di guerra, e la Germania di Werner, che sprofonda progressivamente e implacabilmente nel delirio nazista. Doerr gestisce con consumata abilità gli sbalzi temporali, si diverte a tracciare analogie tra le due diverse perdite dalle quali muovono i suoi giovani personaggi (la vista per Marie Laure, i genitori e la certezza degli affetti, per Werner), e sa raccontare, seppur non senza qualche eccesso didascalico, la deriva di un continente che precipita nella follia collettiva.
Il fascino di Tutta la luce che non vediamo, e ciò che più ne rende attraente la lettura, sta però altrove: nelle pieghe del libro ben più che nelle sue grandi architetture. Oltre a scrivere romanzi e racconti, Doerr collabora regolarmente al Boston Globe come recensore di volumi di argomento scientifico, e proprio la scienza, il suo impatto su due giovani menti, il suo rapporto complesso e spesso drammatico con la storia novecentesca, rappresenta l’anima non troppo segreta del libro. La scienza: o per la precisione, le onde radio. È la capacità innata di costruire radiotrasmettitori a sottrarre Werner alla stessa vita di miniera che ha provocato la morte del padre, ma al contempo a gettarlo nelle braccia dell’esercito nazista, che intende sfruttare il suo talento per individuare le postazioni da cui la resistenza francese trasmette all’esercito alleato la posizione esatta dell’artiglieria tedesca. Ed è costruendo apparecchi radio formidabili, in grado di trasmettere a migliaia di chilometri di distanza, che Etienne, il prozio di Marie-Laure e proprietario della casa di Saint Malo dove la ragazza trova riparo, riesce a dare un qualche sollievo alla sua vita da recluso, traumatizzato dalla perdita del fratello nel corso della prima guerra mondiale. I piccoli programmi radio di divulgazione scientifica e musicale ideati da Etienne sono anche – come il lettore scoprirà nel corso del romanzo – i primi che Werner bambino è riuscito a captare con la sua rudimentale radio, quando ancora viveva in orfanotrofio insieme alla sorella, e hanno rappresentato per lui una vera e propria iniziazione a un mondo del tutto nuovo, capace di alimentare la sua costante vocazione allo stupore.
Accanto alla radio, i libri: anche questi legati a doppio filo al discorso scientifico. Prima di tutto, i volumi in braille che il padre di Marie Laure le regala. Il giro del mondo in ottanta giorni e, ancor più determinante, Ventimila leghe sotto i mari: i due romanzi nei quali Jules Verne porta alla perfezione la sua formula narrativa, anticipatrice della moderna fantascienza, intessuta di elementi avventurosi e di grande divulgazione scientifica. Subito dopo aver ricevuto il suo primo Verne in regalo, tornando verso casa con «il librone stretto al petto», Marie Laure sente come «un tremito allargarsi sotto l’aria», quasi un preannuncio della catastrofe che incombe sulla sua esistenza, e su quella di Parigi tutta. Per rinsaldare le proprie certezze, non trova altro modo che inanellare una serie di interrogativi retorici: «Non credeva forse che avrebbe vissuto a Parigi con (suo padre) per il resto della vita? Che tutti gli anni, per il suo compleanno, suo padre le avrebbe regalato un altro rompicapo e un altro libro, e lei avrebbe letto tutto Verne e tutto Dumas e magari anche Balzac e Proust?» Sradicata dalla capitale, Marie Laure scoprirà ben presto che il suo itinerario di lettrice non includerà mai i maestri del romanzo storico d’avventura (Dumas), né del romanzo realista (Balzac) o modernista (Proust), e si fermerà invece a Verne.
Ma Verne è anche quanto basta a Doerr per infondere in un romanzo dalla struttura fin troppo studiata e levigata il profumo e il sapore della vera invenzione narrativa. La scienza che vibra in tante pagine di Tutta la luce che non vediamo, anche grazie al filtro di due sguardi adolescenti, recupera la semplicità, la capacità di ammaestrare e stupire al tempo stesso, che continua a parlarci ancora oggi dalle pagine di Ventimila leghe: o quanto a questo, dalle mirabili tavole di The Birds of America, la monumentale opera del naturalista e illustratore John James Audubon che fa anch’essa una breve ma fondamentale comparsa in alcuni dei capitoli più intensi tra quelli che hanno Werner come protagonista.
Verne e Audubon sembrano parlarci di una scienza romantica e incorrotta, strumento di un progresso pacifico e rassicurante, non ancora piegata alle tendenze distruttive della tecnologia che pure riverberano nelle pagine, a tratti crude, sul bombardamento di Saint Malo.
Molti altri sono i temi che si rincorrono in questo libro lungo e complesso quanto ne sono brevi e sintetici i capitoli, ma il suo vero centro risiede nel conflitto che oppone la purezza dell’incontro tra l’infanzia e i misteri della scienza e la brutalità di un mondo teso a ricondurre ogni umano progresso a una logica di annientamento. In questo, il romanzo sembra quasi proporsi come una versione semplificata, armonizzata e sentimentale delle meditazioni più feroci ed enciclopediche sulle derive della tecnologia regalateci dalla grande letteratura postmoderna e assurdista: da Comma 22 di Joseph Heller a L’arcobaleno della gravità, di Thomas Pynchon. Doerr ha però finalità differenti, e soprattutto appartiene a un’epoca ben diversa: alla deliberata complessità e all’avanguardismo dei suoi predecessori oppone una lingua pacificata ed elegante, al crocevia tra precisione scientifica e lirismo, e una struttura di linearità quasi ottocentesca. Non stupisce dunque che, dopo aver premiato nel 2014 Donna Tartt per il superbo e dickensiano affresco de Il Cardellino, i giurati del Pulitzer abbiano conferito la massima corona a questo romanzo. Quasi che il ritorno a trame a tutto tondo e a una scrittura alta ma non ostica fosse l’ultimo modo per la letteratura americana di reclamare una sempre più traballante egemonia.

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