Visioni

«Anora», il sogno americano in uno strip club

«Anora», il sogno americano in uno strip clubMikey Madison e Mark Eydelshteyn in «Anora»

Al cinema Il film di Sean Baker, vincitore della Palma d’oro a Cannes, tra realtà sociale e commedia slapstick. Il regista di «Red Rocket» lavora sull’incontro tra attori professionisti e non, evidenti le influenze di Howard Hawks, Ernest Lubitsch e Blake Edwards. La love story tra la sex worker e il figlio di oligarchi russi, l’infrangersi delle illusioni, una nuova Pretty Woman

Pubblicato circa 2 ore faEdizione del 7 novembre 2024

Dal buio pulsante di curve nude e luci colorate di uno strip club emerge Anora, il nuovo film di Sean Baker che, dopo aver vinto la Palma d’oro a Cannes 2024, è appena uscito negli Usa con la media più alta di biglietti venduti per schermo. In un tour de force magicamente dosato tra cinema della realtà e commedia brillante hollywoodiana classica, il regista di Florida Project e Red Rocket reinterpreta Pretty Woman: invece di Julia Roberts e Richard Gere, la prostituta e il ricco businessman, è Mikey Madison (C’era una volta a… Hollywood) e Mark Eydelshteyn, una spogliarellista e il figlio di un oligarca russo. Invece di Los Angeles è New York. Baker torna a girare nella sua città natale, set dei primi film, e ci trasporta immediatamente nella sua grana grossa e nella sua elettrica messiness cultural/sociale.

IL LITORALE di Coney Island e il quartiere russo di Brighton Beach -con un paio di puntatine aldilà del ponte e due viaggi a Las Vegas – sono i set principali di questa screwball ancorata alla splendida interpretazione di Madison nei panni di Anora detta Ani – stripper dolce ed esperta, con nome e nonna uzbeki, per cui al club HQ (che sta per headquarters, quartier generale) le affibbiano sempre clienti che vogliono parlare russo. Tra loro c’è Ivan (Eydelshteyn) che mastica l’inglese più o meno come Borat e vive in uno stato di simpatica, spumeggiante alterazione perenne, da alcol e stupefacenti. A seguire quel primo incontro all’HQ, lui la invita a casa, un villone moderno di gusto terribile che si affaccia sulla Sheepshead Bay, per conoscersi meglio. Dopo qualche amplesso veloce e immaturo, ma pagato benissimo, e un festone di fine d’anno, Ivan le chiede una settimana di esclusiva -per 15 mila dollari in contante. Baker riprende con humor e tenerezza l’intimità delle loro conversazioni smozzicate in due lingue, il sesso immancabilmente acerbo, le scorribande sulla spiaggia con gli amici di lui, sullo sfondo -non a caso- del Luna Park di Coney Island.

TUTTI SEMPRE euforici e molto su di giri. Ani è divertita dagli eccessi del bambino straricco (lo scarto tra classi è un leit-motiv del cinema di Baker), ma sembra guardinga -almeno fino un viaggio a Las Vegas dove comincia a credere anche lei a quel sogno febbricitante, e accetta di sposarlo. Per il viaggio di nozze, dice felice all’amica, sta pensando a Disney World. Il risveglio è brusco, con i genitori di «Vanya» in volo dalla Russia e tre figuri (tra cui Karren Karagulian, attore talismano di Baker che faceva il taxista armeno in Tangerine), che si presentano nel villone con un piano per invalidare il matrimonio e un appuntamento in tribunale il mattino dopo.

I fantasmi di Howard Hawks, Ernest Lubitsch e Blake Edwards aleggiano nella scena irresistibile in cui, dopo che Ivan se la dà a gambe, Ani sfoggia un’inattesa furia distruttiva dando serio filo da torcere ai tre sgherri e all’arredamento del soggiorno. Nel mix di slapstick e autentica minaccia in cui sfuma la premessa Cenerentola/commedia romantica della prima parte del film, lei non accetterà di essere umiliata (c’è un po’ di Cabiria nel personaggio, ma meno sentimentalismo) fino all’ultimo. Anche quando, dopo che le hanno strappato il 4 carati dal dito, è costretta ad unirsi al trio, sulle orme dell’inutile marito, per un viaggio che li porta nei locali notturni di Brighton Beach e poi a Manhattan. O durante il faccia a faccia con la suocera miliardaria arpia. Baker lavora da sempre sulla fusione di attori professionisti e non, e su quella tra immersione nella realtà/improvvisazione e stilizzazione formale.
Qui l’equilibrismo è quasi perfetto con un controllo sublime nei passaggi tra tempi frenetici di esorbitane comicità fisica e momenti di improvvisa calma, carichi di suspense. L’ultima scena, in particolare, concentrata nell’abitacolo di un’auto e scandita solo dal rumore del tergicristallo che caccia la neve dal parabrezza, è così bella che smetti di respirare per paura di interromperla.

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