Classe e fascino, diva e al contempo accessibile. Il che non deve necessariamente suonare come un paradosso, né tanto meno un ossimoro. Annie Lennox è musicista fuori dal comune, sin dai tempi dell’unione – personale e artistica – con Dave Stewart negli Eurythmics, il duo pop che negli ottanta riuscì nell’impresa di fare incontrare il pop e la sperimentazione senza colpo ferire. Il che in soldoni significa vendere vagonate di dischi (parliamo del paleolitico pre streaming…) ed essere adorati dalla critica e dal pubblico. Una volta terminata quella favorevole congiuntura astrale – rispolverata giusto per un’isolata stagione nel 1999 con un disco – Touch Dance – e un tour, la cantante scozzese intraprende una carriera solista con pochi album, tutti ispirati e mai di routine.
Impegnata nel sociale – le sue lotte per l’ambiente, e nella politica, non ha mai amato lo show business e dal 2007 (Songs of Mass of destruction) non incide materiale nuovo: «Compongo solo quando sono inquieta – spiegava tra il serio e il faceto in un’intervista, ora sono serena e preferisco fare altro».

DETTO FATTO, i suoi live set si diradano sempre più e la parola «tour» sparisce dall’agenda. Così la sua apparizione capitolina all’interno dell’evento benefico – Time for Change per la campagna End Polio contro la poliomelite supportato da uno show a cui hanno preso parte anche Nicola Piovani, Mahmood, Jago, Dergin tokmak, Luca Tommassini, Danilo Cirillo, genera pura ammirazione. Venti minuti venti per pianoforte e voce – dove risulta sempre padrona della sua vocalità, calda e profonda ma capace ancora di scalare note altissime e lanciarsi in temerari falsetti. La scelta del repertorio cade inevitabilmente sui classici degli Eurythmics come Here Comes The Rain again, dove il tema ecologista viene ancor più sottolineato da un’interpretazione profonda e drammatica o There must be An Angel (era in un album degli Eurythmics Be yourself tonight, dedicata a Stevie Wonder che su quel disco suonava anche l’armonica). Abito da sera nero, occhi penetranti tra le rovine del Tempio di Venere, nel parco archeologico del Colosseo che faceva da suggestivo sfondo, sfida il tempo con una versione rarefatta di Walking on a Broken Glass e chiude il set con l’ineludibile inno degli ottanta: Sweet Dreams (Are Made of This). Sì, i sogni sono fatti proprio di questo.