La scrittura come testimonianza di una verità, parola temeraria ma che Annie Ernaux ha saputo incarnare nel tempo alla stregua tanto di un pegno etico con i propri lettori quanto di uno sguardo politico su un arcano di solito omesso dalla letteratura, e cioè il fatto che la lotta di classe (la cui esistenza è oggi negata dal senso comune) si manifesti non soltanto nell’evidenza esterna dei conflitti sociali ma anche nell’imprinting che modella le emozioni e i pensieri degli esseri umani. In mezzo secolo di attività e una ventina di opere narrative, fin dall’esordio de Gli armadi vuoti (del ’74 ma uscì in Italia da Rizzoli nel ’96 nella partecipe versione di Romana Petri), Ernaux non ha mutato atteggiamento nei riguardi della materia che coincide inderogabilmente con il tracciato di una vita, la sua, dal decorso ascendente e tuttavia accidentato.

È LA VITA di una provinciale, nata in un villaggio della Normandia nel ’40, figlia unica (o per meglio dire sopravvenuta due anni dopo la morte di una sorellina) nata da una coppia di ex contadini gestori di un piccolo bar-drogheria, quindi studentessa universitaria a Rouen e Parigi, poi insegnante, moglie e madre presa dentro un nucleo familiare borghese, che soltanto all’inizio degli anni Settanta metterà radicalmente in discussione da militante femminista con la stesura, molto dolorosa, del suo primo romanzo. Nel volto del padre, nel suo mutismo e nelle improvvise distrazioni come negli eccessi emotivi della madre, Ernaux interroga il decorso di una duplice educazione sentimentale, la propria e la loro.
Nei romanzi Il posto (L’orma 2014) e specialmente Gli anni (ivi 2015) riconosce in entrambi i riflessi di un’esistenza marginale divenuta coazione e destino, di un decoro che nasconde a malapena antiche velleità e ripetute frustrazioni (l’invidia della compostezza borghese, di una naturalezza che ignori il bisogno) mentre in sé stessa rinviene le ipoteche di chi sta provando imbarazzo o rancore per l’ambiente d’origine e perciò vuole andarsene, farcela da sola in un altrove che prometta innanzitutto – sono i primi anni Sessanta – costumi più liberi e indipendenza economica: ma è proprio qui che la scrittrice coglie in controluce l’ambiguità di una «emancipazione» che non è affatto «liberazione», perché lo status di piccolo borghese provinciale non ha limiti più ferrei di quello che al presente la inquadra quale da madre e moglie di una famiglia finalmente agiata. Ernaux scrive in prima persona singolare, riordinando linearmente i dati della percezione, ma è come se scrivesse in terza persona.
Non esibisce particolari artifici o trovate meta-letterarie e si attiene alla formula del diario o, anzi, del nudo referto. Tra la voce e i fatti di cui narra interpone sempre una debita distanza ma non c’è ironia, o l’annuncio di una istanza superiore, né si avverte mai il fervore aneddotico di chi sta redigendo una cronaca e, tanto meno, la freddezza programmatica che a suo tempo promanava dalle opere del Nouveau Roman (o in taluni cineasti della Nouvelle Vague, qui si pensi alla netta grafia di un Eric Rohmer) pure se qualcosa di quell’algida perfezione deve essersi inciso una volta per sempre nel ductus della scrittrice normanna, la cui asciuttezza, il cui austero riserbo non vengono meno neanche nelle opere sentimentalmente più arrischiate come attestano anche in italiano le recenti partiture che L’orma viene proponendo con sistematicità nelle impeccabili traduzioni di Lorenzo Flabbi: è il caso de L’altra figlia (2016), sul ricordo familiare della sorella perduta, e di Memoria di ragazza (2017), un ritorno al proprio Bildungroman, alle cause profonde di una ribellione all’ambiente che solo in retrospettiva si manifestano nel loro combinato disposto (un tabu, un enigma irresolubile agli occhi della scrittrice) di cieco slancio adolescente e rifiuto rabbioso della umiliazione sociale.

D’ALTRONDE, quando venne nel 2014 al Festival di Mantova, timida, emozionata, bellissima, a Marino Sinibaldi che la intervistava in pubblico per Radio3 si limitò a rispondere che la sua poetica (aggiungendo virtualmente le virgolette a una parola così solenne) consisteva appena nel reporter au jour des histoires ordinaires (alla lettera «ricondurre alla luce storie del tutto comuni»). E quanto a questo, Ernaux non mira a ricomporre il microcosmo di una memoria privata da rifrangere in quella del lettore ma si dà il compito di rintracciare ricordi puntuali, concreti e di fisica evidenza come nel caso de L’altra figlia o L’evento (2000, poi L’orma 2019) in cui tratta l’esperienza di un aborto.
Non cerca dunque nel lettore la proiezione emotiva o una qualche complicità ma, al contrario, esige un’attenzione ai dettagli trascurati, agli automatismi e ai riti comunitari o insomma una adesione all’umiltà della vita ordinaria che è tangibile anche nei titoli più laterali della sua bibliografia, per esempio in Guarda le luci, amore mio (2022), agenda di una consumatrice al supermercato e ideale palinsesto di una ex allieva di Pierre Bourdieu dalla spiccata immaginazione sociologica.

TUTT’ALTRO CHE UNANIME la sua ricezione, molti in Francia (più o meno gli stessi che ritengono Michel Houellebecq un grande scrittore) non le perdonano la fedeltà allo stato laico e alla scuola pubblica, la fede nei valori repubblicani e la dura ostinata avversione alle politiche neoliberali che infatti ha voluto sintetizzare nella lettera aperta al presidente Emmanuel Macron del 29 marzo 2020, uscita su France Inter all’inizio della pandemia, dove lo invitava a riconoscere l’esistenza e la funzione «di quelli che continuano a svuotare i cassonetti, a stare alla cassa, a consegnare le pizze, a garantire una vita altrettanto indispensabile di quella intellettuale, la vita materiale». Vale a dire la vita che si manifesta in ciascuno di noi a partire dal legame sociale ed è l’indice di verità che autentica la scrittura di Annie Ernaux.

 

 

SCHEDA

La scrittrice francese Annie Ernaux sarà ospite della diciassettesima edizione della Festa del Cinema di Roma il prossimo 22 ottobre con il documentario «Les Annees super 8», realizzato assieme al figlio David Ernaux-Briot. Con quest’opera, apre il baule dei ricordi grazie a una serie di video amatoriali girati tra il 1972 e il 1981, quando suo marito Philippe Ernaux comprò una cinepresa Super-8 per filmare la loro vita e quella dei due giovani figli. «Les Annees super 8» è un lavoro che incorpora non solo il trascorrere del tempo della vita della scrittrice e della sua famiglia, ma anche quello di mezzo secolo di storia, intercettando i tumultuosi cambiamenti in atto nella Francia e nel mondo di quegli anni. Sarà poi il 24 ottobre al cinema Lumière di Bologna (ore 20) alla 15/a edizione di «Archivio Aperto», manifestazione di Home Movies – Archivio nazionale del film di famiglia di Bologna. In dialogo con Francesca Maffioli, l’autrice incontrerà il pubblico anche martedì 25, alle ore 18.00, presso la piazza Coperta della Biblioteca Salaborsa (piazza del Nettuno, 3).