In un celebre frammento, Saffo scrive: «Eros, scioglitore di membra, ancora una volta mi scuote, / dolceamaro, impossibile da combattere, creatura insinuante». A questa creatura, partorita dalla lirica arcaica di una Grecia che andava compiendo il fatale passo dall’oralità alla scrittura, è dedicato Eros il dolceamaro (traduzione di Patrizio Ceccagnoli, Utopia, pp. 224, € 18,00), ultimo libro in italiano della poetessa e classicista canadese Anne Carson. In inglese era uscito nel 1986 come rielaborazione della sua tesi di dottorato del 1981, Odi et amo ergo sum. Dunque uno studio del contraddittorio legame che avvince il dolce amore all’amaro odio.

Prima ancora di affrontare Saffo, e dietro a lei la schiera di antichi e moderni che l’hanno seguita, Carson riporta nella Prefazione un brano di Kafka dove c’è un un filosofo che corre dietro alle trottole dei bambini. Afferrarle lo rende brevemente felice, convinto com’è «che il carpire anche un minimo dettaglio, per esempio quello di una trottola che gira, sia sufficiente per la comprensione di tutte le cose». Appena ne afferra una, però, il piacere diventa nausea e il filosofo getta via «quello sciocco pezzo di legno». La trottola sta ferma in verticale solo se nel contempo gira, e che il carpire questo dettaglio possa avviare alla comprensione di tutte le cose non è speranza inaudita. L’apologo è un’evidente variazione di quella unione degli opposti che in Eraclito (che Carson non nomina mai) è la legge suprema del cosmo e il segreto dell’armonia del tutto. Il frammento 51, nella traduzione di Simone Weil, recita: «Non comprendono come ciò che si oppone si accordi in un’identità. L’armonia è mutamento di lato (atto di volgere), palintropos, come per l’arco e la lira».

Vibrando da un lato all’altro, le corde sono in una tensione tra opposti, sono la tensione tra gli opposti unificati, e senza quella consonante dissonanza non ci sarebbe armonia.

La trottola eraclitea di Kafka è un correlativo oggettivo della simultaneità di piacere e dolore nel dolceamaro di Saffo, che è anch’esso un’unità di opposti. In italiano Saffo dice «Eros… ancora una volta mi scuote», che è una corretta traduzione del greco doneo (agito, scuoto). Ma Carson aveva tradotto «Eros once again … whirls me», in un chiaro tentativo di agganciare Saffo a Kafka, perché whirl è il moto rotatorio attorno a un asse che è proprio della trottola.

«Amare i propri amici e odiare i nemici» scrive Carson «è la ricetta arcaica per ogni risposta morale. Amore e odio sono l’impalcatura di ogni relazione tra esseri umani». Nell’eros, dove amico e nemico convergono in chi lo suscita, gli opposti convivono in una «tensione profonda e irrisolvibile», perché nessuno dei due può sopravvivere all’abolizione dell’altro. Questa inquietante logica arcaica investe, assieme all’eros, il tutto. Plutarco, citando Eraclito, scrive che «non esiste niente in natura che sia completamente puro», e che i «veri sapienti» sanno che «la natura deve avere in sé l’origine e il principio non solo del bene, ma anche del male». La sua forza è «innata sia nella struttura fisica che nell’anima vitale del tutto» e fa parte dell’«afflato vitale dell’universo». Nell’eros si annida dunque, scrive Carson, «un dilemma che è stato ritenuto cruciale da molti pensatori, a partire da Saffo fino ai giorni nostri». Poiché Platone vi si sofferma a più riprese, l’ultima parte del libro è dedicata ai suoi due dialoghi erotici.

Eros, racconta Diotima nel Simposio, è il figlio bastardo di una coppia genitoriale di opposti: Abbondanza e Povertà – e proprio nel Simposio, di fronte alla «duplicità» di Amore, Erissimaco ricorre all’uno di Eraclito, che «discordando in se stesso, con se stesso si accorda». Il desiderio, per esistere, può essere rivolto solo a ciò che manca: l’amante desidera ciò che non ha, ed è impossibile che ottenga ciò che vuole, perché se lo ottiene smette di desiderarlo.

Il tema non ha cessato di affascinare i moderni e Carson non ha difficoltà a reperirlo in Weil, Dickinson, Petrarca, Sartre, De Beauvoir, Lacan, Barthes, Calvino, Kierkegaard, Ricoeur, Stendhal, Rilke, Woolf e altri. Essere scossi e posseduti da Eros è dunque esperienza necessariamente tremenda. Fedro, nel dialogo eponimo, ammira uno scritto di Lisia in cui il sofista insegna che per scansare l’amarezza rendendo tutto dolce è sufficiente che i bei ragazzi si concedano tranquillamente solo a dei non-amanti. Ma per Platone l’astuto trattatello, scrive Carson, è «pornografia filosofica». Nei suoi dialoghi, come nella lirica e nella tragedia, l’eros assale e domina l’amante, che nell’abbandonarvisi perde il controllo di sé: è ciò che i greci chiamano mania.

Questa possessione da parte di una forza demonica esterna è anche, in Platone, la premessa della poesia e della filosofia – cioè dell’eros rivolto alla sofia. Ed ecco che la dolce ricetta di Lisia viene così commentata da Socrate: «La frequentazione del non-amante è mista a un autocontrollo mortale che si dispensa in misure mortali e misere dopo aver generato nell’anima dell’amato quello spirito di avarizia comunemente lodato come virtù».

Nella Terra desolata di T.S. Eliot l’insegnamento del Tuono è: «… sangue che mi scuote il cuore / La tremenda audacia di un momento di abbandono / Che una vita di prudenza non potrà mai ritrattare / In virtù di questo, e questo soltanto, siamo esistiti»